ECEL sta per EMPATHIC CARE OF THE END OF LIFE, l’accompagnamento empatico della fine della vita, e l’acronimo inglese vi dice che ho cominciato a insegnare questo approccio all’estero, dove c’era maggiore apertura rispetto al tabù della morte. Da allora, l’ho insegnato in toto o in parte in molti master delle università istituzionali e oggi, in particolare, è totalmente insegnato, con sette co-docenti, presso l’Università Popolare In Corde Scientia.
Vi descriverò in breve la genesi del metodo, per poi poter entrare nel merito dei contenuti.
ECEL ha tre radici: una molto orientale, una molto occidentale e una, ormai molto robusta, che è quella dell’esperienza.
La radice orientale è di matrice tibetana: la tanatologia tibetana è vastissima, forse la più vasta del pianeta, e la esploro dal 1985. A breve saranno 40 anni, buona parte dei quali sotto la guida di Sogyal Rinpoche, che ci ha lasciati nel 2019 ed è l’autore del primo libro che ha aperto agli occidentali i contenuti di questa disciplina, il Libro tibetano del vivere e del morire. Anche l’altro mio mentore principale, Cesare Boni, con il quale ho fatto il perfezionamento in Tanatologia presso l’Università Federico II di Napoli, si era specializzato in tanatologia orientale, in particolare di matrice Vedanta, quindi legata all’India e all’Induismo.
Da questa radice orientale (ma soprattutto, nel mio caso, buddhista tibetana) proviene il corpus delle cosiddette “pratiche meditative della compassione”, importantissime quando si è malati, o si accompagna un malato, e per la preparazione alla morte propria o altrui. Il merito di Sogyal Rinpoche è stato di renderle disponibili a tutti, estraendone i contenuti universali senza snaturare questa tradizione tanatologica antichissima, cosa che ci permette di accompagnare tanto i laici quanto persone che, in obbedienza al loro credo, “coloreranno” di esso queste meditazioni. ECEL non è colorato di una religione che escluda le altre. Il che lo rende universale.
Peraltro non potrebbe essere diversamente, data la seconda radice, molto più recente, e molto occidentale: fisica quantistica, neuroscienze, neurocardiologia.
Prima dei primi anni 2000 i soli studi sui meditanti erano condotti sulla MT (Meditazione Trascendentale), ed era questo il campo di Cesare Boni, che ci abituò a tener sempre d’occhio la scienza. Non c’erano ancora studi sul corpus tibetano, ancora poco diffuso. Bisognerà aspettare il 2004, quando Davidson e compagni si metteranno all’opera, disponendo anche di tecnologie che prima non esistevano. Ed è quando emergono i primi risultati sui meditanti di scuola tibetana, da allora assiduamente studiati da neuroscienziati di tutto il mondo, che ECEL comincia a delinearsi. Per esempio, si scoprirà solo nel 2013 che si può essere empatici senza cadere nella pericolosa fusione con la sofferenza dell’altro, ma questo ancora ostinatamente non lo insegnano nelle facoltà di medicina e infermieristica, con il risultato di mandare i curanti regolarmente in burn out.
Lo conferma uno studio pilota condotto nell’ospedale di Parma, sul personale che avevo addestrato in ECEL in quei primi anni, studio che fu premiato nel 2008 con il Premio Terzani della medicina, e che è interamente disponibile sul sito di Tonglen ODV. E ovviamente la stessa cosa fu poi confermata da studi più prestigiosi e con maggiori fondi disponibili, condotti altrove.
Il principio è semplice, e già chiaramente enunciato nella tanatologia tibetana: la famosa neuroscienziata tedesca Tania Singer scopre che le aree cerebrali che presiedono all’empatia e alla compassione sono diverse. Fino ad allora (2013), la scienza occidentale era convinta del contrario. La tanatologia tibetana dice che ci son due diversi addestramenti da perseguire, e che un uccello con una sola ala non va da nessuna parte. Prescrive quindi un addestramento meditativo graduale che conduca effettivamente a uno stato di allargamento percettivo nei confronti dello stato dell’accompagnato, e un secondo addestramento che servirà a rafforzare altre sinapsi, che è quello della compassione.
Occorre qui intendersi su cosa sia la “compassione”, spesso confusa, in Occidente, con il compatimento. E non ho mai trovato di meglio di questa definizione di Levine:
Compatimento è quando a incontrare il dolore dell’altro è la mia paura,
Compassione è quando a incontrare il dolore dell’altro è il mio amore.
I due addestramenti sono copresenti in ECEL, e vanno a rafforzare aree diverse che collaborano nell’accompagnamento impedendo il primeggiare dell’una sull’altra, ed evitando da un lato il rischio di fusionalità, e dall’altro il rischio di diventare freddi per paura di diventare fusionali, separandosi così, interiormente, dall’empatia, che è invece una caratteristica naturale di tutti i mammiferi, noi inclusi.
Tenere alti gli scudi di difesa ci snatura ed è faticoso, e non c’è da stupirsi se si finisce in burn-out. Il personale che mi è stato affidato a Parma era in gradi diversi di burn-out, misurati con un’apposita scala, e ne sono usciti tutti, seppure in tempi diversi. Gli accompagnatori ECEL non soffrono di burn-out, né della cosidetta “compassion fatigue“, perché godono di un addestramento alla compassione, e dove c’è questo addestramento c’è compassion ma non fatigue!
L’addestramento alla compassione passa, tradizionalmente, per il cuore. E oggi sappiamo, dalla radice occidentale e dagli studi neurocardiologici, che il cuore è un cervello dotato di 40.000 neuroni, quindi addestrabile, e soprattutto che il cuore è dotato di un campo elettromagnetico 5000 volte più intenso di quello del cervello encefalico e più potente di tutti gli altri organi del corpo; esso produce 40/60 volte più bioelettricità del cervello. Questa energia elettrica pervade tutte le cellule del corpo fisico, creando un legame particolare tra esse. Quando siamo turbati da emozioni negative come paure, ansia, frustrazioni, stress, il campo diventa caotico e disordinato, cioè ha uno spettro incoerente; mentre quando proviamo emozioni positive come la gratitudine, la compassione, il perdono, l’amorevolezza, l’amore, il campo diventa ordinato e si ottiene uno spettro coerente.
Sappiamo che esso interagisce con il cervello, nostro e altrui, ma sappiamo anche che ancora una volta la tanatologia tibetana ha precorso i tempi, perché ci parla di interazione dello stato compassionevole sviluppato utilizzando il cervello del cuore e di come esso influisca direttamente sullo stato altrui. Oggi sappiamo che gli stati compassionevoli di frequente reiterati (ed è questo l’addestramento: tecnicamente è un addestramento alla coerenza cardiaca) incidono sul cervello del cuore e sul campo elettromagnetico del cuore, il quale trasmette le informazioni (il suo stato) al campo elettromagnetico del nostro accompagnato. Sta però a noi accompagnatori, e non a lui, saper entrare velocemente in questo stato di variabilità cardiaca coerente(1), che si traduce in uno stato di benessere psicofisico trasmissibile, soprattutto quando abbiamo davanti un malato terminale che la morte rende naturalmente empatico. Egli assorbe tutto, proprio come un bambino piccolo, o un animale. Sono le tre categorie dei grandi empatici queste, ed è molto più facile per noi comunicare con esse se ridiventiamo capaci di empatia e ci siamo addestrati bene anche nella compassione. Lo stato cercato è uno stato aperto, privo di aspettative e paure, di grande lucidità e di pace profonda. Uno dei principi di ECEL è
Se vuoi che l’altro muoia in pace, sii tu stesso pace.
Coscienza non locale e tukdam
Un altro importante punto di ECEL dove si uniscono lo spirito di ricerca scientifica e la tradizione tanatologica tibetana, buddhista e bön, è l’indagine sulla coscienza non locale. L’idea che la coscienza sia un epifenomeno del cervello è frutto di un positivismo materialistico, oggi ormai (finalmente, devo dire) smentita dai fatti.
Qui ci apriamo all’ argomento tukdam.
Il tukdam è da pochissimo al centro dell’interesse dei neuroscienziati, ma direi che siamo davanti a prove inconfutabili che la coscienza è un fenomeno non locale, cosa che cambia tutto, anche dal punto di vista etico.
Comincerei col ricordare che la morte non è un interruttore, ma un processo lungo e complesso, e che la cosiddetta morte clinica, ossia la morte cerebrale che si suppone intervenga dopo 20-30 minuti di assenza di battito cardiaco è un criterio recente di definizione della morte nato negli anni Sessanta – agli albori dei trapianti – per definire quando sarebbe stato opportuno o meno procedere all’espianto degli organi vitali.
Questo criterio è già stato messo in crisi da Borjin e altri, perché se invece di misurare con un elettroencefalogramma gli stati superficiali del cervello, come accade di fatto quando la morte cerebrale viene constatata in ospedale, si misurano gli strati più profondi, si scopre ancora un’attività in corso. Non è un residuo di attività bioelettrica, ma schemi ben ordinati di attività.
Il concetto di morte clinica, ossia morte del cuore e di conseguenza, 20-30 minuti dopo, del cervello, postula erroneamente che la coscienza sia un prodotto di quest’ultimo, e che dunque allo spegnersi di esso non vi sia più coscienza.
Esistono smentite provenienti dall’ embriologia(2), ma quello non è il mio ambito e non mi ci inoltro, preferendo citarvi esempi di smentita che riguardano il mio campo e che sono di forza crescente.
Premetto che per la visione materialistica della scienza, le esperienze di NDE, ossia le morti cliniche seguite da un ritorno in vita e dal racconto (sempre simile nei vari casi) di cosa è accaduto nel frattempo, non vengono considerate utili per comprovare qualcosa circa la morte, giacché si tratta di morti apparenti e non definitive.
Per certi versi, è una obiezione comprensibile: tant’è che alcuni recentissimi casi di studio su pazienti che al momento della morte erano già monitorati negli strati profondi del cervello per la loro patologia, provano che dopo la morte clinica gli strati cerebrali profondi, non quelli superficiali misurati dal tanatogramma, continuano per un po’ a funzionare, in presenza di onde gamma. Ora, le onde gamma sembra siano compatibili con l’esperienza di iper-realtà di chi attraversa una NDE.
Ovviamente questi studi minano incidentalmente anche la credibilità della morte cerebrale, fondata fin qui sulla misurazione solo degli strati superficiali del cervello.
Tuttavia, c’è un caso di NDE che solo l’ipotesi della coscienza non locale può spiegare. Sono le NDE dei nati ciechi, che non avendo mai visto nulla nella loro vita e mai neppure fatto un sogno visivo, riferiscono, al ritorno dalla morte clinica, cos’hanno visto accadere in sala operatoria.
Chi vedeva? Magari il cervello ancora funzionava negli strati profondi, che non vengono indagati, ma con cosa vedeva, se il nervo ottico era irreparabilmente danneggiato anche prima? Diventa in tal caso difficile sostenere che chi vede e chi al ritorno racconta sia solo il prodotto del cervello.
Ma una smentita ancora più clamorosa ci viene dall’avere oggi accesso alle informazioni della tanatologia tibetana.
Mi riferisco tanto alla tradizione buddhista, presente in Tibet dall’anno 800- 850 della nostra era, che alla tradizione bön, molti più antica.
Entrambe hanno sviluppato una tanatologia vastissima, e in entrambe sono noti i casi di meditanti ben allenati che riescono già in vita a sintonizzarsi sulla coscienza fondamentale, non locale, giungendo alla morte in tale stato meditativo. Dopo morte clinica verificata, quindi con il cervello tecnicamente fuori uso, la coscienza è assorta in meditazione e non lascia il corpo, perché altrimenti c’è da chiedersi cosa impedisca di fatto l’insorgenza di quelli che sono, secondo il criterio tanatologico classico di definizione della morte, i segni inequivocabili di essa: non compare il rigor mortis, né l’algor mortis, né i segni di putrefazione, a cominciare dall’odore.
Va detto che dal tukdam non si torna, per cui l’obiezione riservata alle NDE qui viene a cadere definitivamente.
Il tukdam è dichiarato tale solo dopo un tempo di osservazione per verificare il comparire o meno dei segni certi di morte che ho citato, tempo che coincide con quello in uso qui da noi prima dell’avvento degli elettroencefalogrammi, quando per esser certi non si trattasse di morte apparente si aspettava tre giorni, o tre giorni e mezzo, prima di chiudere la bara.
Quando i segni certi di morte non compaiono, lo stato del defunto (che non è tale, appunto) viene definito “tukdam”, ossia “in unione con la natura del Vittorioso”.
Ho sviluppato l’argomento in Di morte non si muore, il libro che ho dedicato al tukdam e alla coscienza non locale, dove ho raccolto casi di tukdam recenti, durati fino a 37 giorni nel torrido clima indiano…
Possiamo tradurre il termine tukdam come “natura del Vittorioso”, ossia di un buddha. Di cosa si tratta?
È coscienza assoluta, non locale, non dipendente dal cervello, di cui semmai essa si serve per interagire con il mondo esterno fintanto che il cervello funziona. Il che non vuol dire che quando il cervello smette di funzionare essa scompaia.
La metafora tibetana che ben rappresenta questo doppio livello di realtà della coscienza è quella dell’onda, che dall’oceano si forma, poi permane per un certo tempo (ma è un falso permanere in quanto muta istante per istante), e poi all’oceano fa ritorno. L’onda rappresenta l’aspetto individuale e ordinario della coscienza oceanica; questa coscienza individuale è praticamente ipnotizzata dal proprio apparire, rimanere e scomparire, e questa ipnosi cognitiva la fuorivia: non riesce più ad accorgersi di essere coscienza oceanica.
Le due tradizioni tibetane, quella buddhista e quella bön prebuddhista, considerano la morte un’occasione eccellente non tanto per tornare a essere oceano (l’onda, la coscienza ordinaria lo è comunque, anche se ne ha perso la consapevolezza!) ma per ri-conoscere consapevolmente che quello siamo. Entrambe hanno quindi generato una straordinaria tanatologia, la più vasta del pianeta, perché puntano sulla morte come sul momento più importante per il quale prepararsi tutta la vita, in quanto il morire facilita, con lo spegnersi progressivo dei sensi, ossia col progressivo ridursi delle funzioni del sistema nervoso centrale, lo stato di sintonizzazione continuativa con la vera natura oceanica.
Questo stato, quando è continuativo (nella veglia, nel sonno, nel sogno e nella morte) è chiamato Illuminazione: vengono a cessare le artificiose separazioni, ordite della mente ordinaria, tra coscienza individuale e coscienza (o meglio: consapevolezza) assoluta.
Questo doppio livello di realtà su cui viviamo, assomiglia alquanto alla descrizione della realtà che ci viene dalla fisica quantistica, non trovate? Come dice Aspect, ogni fenomeno collassa istante per istante dal campo quantico in virtù di innumerevoli cause e condizioni, ossia di tutte le incommensurabili forze dell’universo che interagiscono, istante per istante su quel fenomeno. Ciò spiega il continuo mutare dei fenomeni che noi chiamiamo vita, senza renderci conto che è un continuo morire rispetto a com’eravamo nell’istante precedente.
Il Campo quantico (oggi chiamato in molti modi che forse avrete incontrato: campo Alpha, campo Ahkashico, campo informazioni, campo potenziale, campo di tutti i possibili) ci viene descritto come infinito, privo di direzionalità, assolutamente intelligente perché è un campo di informazioni, appunto: il campo di tutti i possibili. Ci viene detto che ogni suo punto virtuale conosce ogni altro punto in tempo zero e ce lo dimostra l’esperimento di Gisin nel ’98 al CERN di Ginevra, ove due elettroni vengono spediti lungo fibre ottiche divergenti, trovando in ogni caso a un certo punto un bivio: da un lato verranno bloccati da uno specchio, dall’altro potranno continuare. E si scopre che l’uno e l’altro scelgono la stessa opportunità al bivio. Non se ne conosce il criterio di scelta, ma la scoperta ci dice che essi si sono trasmessi l’informazione… e dare e ricevere informazioni è la definizione stessa di cognitività. Ma cosa li informa? Non la luce, che nel tempo in cui l’informazione percorre la distanza di 11 chilometri (e poi, replicando l’esperimento, distanze maggiori) percorre solo un paio di centimetri.
Essendo quella della luce la massima velocità conosciuta, si comprende che questa informazione non ha bisogno di velocità: perché è il campo che la trasmette, e non avendo direzionalità esso è al di là dello spazio, e quindi anche del tempo che è funzione di uno spazio da percorrere. Ed essendo noi, tanto il corpo quanto la coscienza, fenomeni che collassano dal campo istante per istante, siamo contemporaneamente realtà fisiche cognitive e parte del campo che è altamente cognitivo.
I tibetani lo chiamano Kutuzangpo, “il Tutto che è buono”. Perché se davvero ogni suo punto virtuale conosce ogni altro suo punto, non può che essere compassionevole. Se un punto ne ledesse, immaginiamo, un altro, ne sperimenterebbe il dolore, e sarebbe idiota a fare una cosa simile, altro che cognitivo!
Anche il fatto di essere compartecipi del campo insieme alla persona che accompagniamo, ci spiega da dove giungano le informazioni empatiche che riceviamo quando siamo in stato meditativo, e come sia possibile che lo stato conseguito si trasmetta alla persona che accompagniamo. Sta a noi conseguire uno stato di pace profonda, vasto, libero da complessità, e permettere che esso “stinga” empaticamente su chi accompagniamo: Se vuoi che l’altro muoia in pace, sii tu stesso pace.
Lo vedremo riflettersi non solo nell’atteggiamento del corpo, o sul volto, ma anche sulla coerenza della variabilità cardiaca, nel caso in cui ci sia dato di misurarla.
Vi chiederete come mai di una cosa tanto impressionante come il tukdam si parla solo adesso in questi termini. Beh, molti eccellenti maestri tibetani ne hanno parlato, ma le ricerche sono cosa recentissima. E devono fare i conti con una resistenza culturale a “mettere in piazza” le proprie pratiche meditative: su questo, i tibetani sono molto riservati, considerandolo un atto di presunzione, di vanto che nuoce alla pratica stessa. Inoltre, sebbene il Dalai Lama si adoperi per fare in modo che il fenomeno sia studiato, fin qui gli scienziati (americani, russi, indiani, tibetani che collaborano insieme) sono sempre arrivati troppo tardi, o per via degli spostamenti difficili in India e Tibet, o perché avvisati in ritardo (nei primi tre giorni dopo la morte clinica si osserva il corpo per verificare se ci sono i segni del tukdam) oppure si sono serviti di apparecchiature ancora non ben tarate sul fenomeno da osservare.
Va ancora menzionata, qui, la terza radice, quella dell’esperienza
Essa si giova ovviamente delle prime due, perché le applica.
In particolare, la sensibilità empatica coltivata e l’aver imparato a operare da uno stato meditativo che, come abbiamo visto, favorisce lo sviluppo di certe aree cerebrali, rendendole pian piano dominanti: lo stato corrispondente compenetra allora le attività di veglia, di sonno, di sogno, e ovviamente anche la nostra morte, un fatto a cui ho accennato parlando di tukdam.
Le otto fasi del morire e le visioni di premorte
Qui si tratta di valutare un’esperienza collettiva: non solo i miei quasi quarant’anni di accompagnamento, ma l’esperienza degli accompagnatori che operano dal 2001 entro l’associazione Tonglen ODV, e persino l’esperienza di alcuni nostri accompagnati che hanno mantenuto la lucidità fino in fondo, confermano la descrizione tibetana di otto fasi del morire, descrizione che non si trova in altre tanatologie del pianeta, e che ci è giunta intatta.
In queste fasi, meticolosamente descritte: con il progressivo ritirarsi dei sensi, si osservano segni fisici che rimandano a una corrispondenza di mutamento delle percezioni del morente; cambiano le sensazioni fisiche ma anche il suo modo di cogliere il mondo. Conoscere queste dinamiche ci permette di adeguare la nostra comunicazione alle percezioni del morente, senza contestarle o attribuirle alla medicalizzazione. Fra esse abbiamo le sue visioni di premorte, che sono per lui una fonte di grande resilienza, e sono il frutto di un allargamento di coscienza (ricorderete che essa non è localizzata nel cervello). La sua coscienza è sempre più vasta, percepisce a volte cose che noi non possiamo percepire, e noi possiamo a volte dialogare serenamente con loro su queste loro percezioni, quando per esempio essi si mantengono lucidi fino in fondo. Da qui anche l’importanza sull’intendersi sul tema della sedazione: occorrerebbe evitare di sedare anche la coscienza, limitandosi a sedare il dolore. Molto hanno ancora da scoprire, in questo, le cure palliative.
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(1) La variabilità cardiaca si riferisce agli intervalli fra due battiti: quando è armoniosa, mostra un grafico con minime ma sempre presenti variazioni di tali intervalli. Se questo non avviene, ossia tutti gli intervalli tendono ad essere uguali, la morte è vicina (come ci spiegano gli ostetrici che osservano questo parametro nel bambino durante il parto), e allo stesso modo un’eccessiva variabilità segna uno stato caotico, che può preannunciare l’infarto).
(2) Se nello sviluppo embrionale l’encefalo non si forma prima della quinta settimana, ed è solo tra la sesta e la settima, quando il tubo neurale si chiude e il cervello si separa in tre parti (cervello, cervelletto e tronco encefalico) che il cervello prende a funzionare, vuol dire che lo sviluppo dell’organismo precede la comparsa del cervello, e quindi la tesi per cui la perdita irreversibile delle sole funzioni cerebrali determinerebbe la cessazione della vita dell’organismo non sta in piedi.