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Esercizi spirituali

La domanda che proviamo ad affrontare in questa sede è: comprendiamo davvero cosa sia il Buddhismo?
Esercizi spirituali
detail from Head of Buddha (1943); Reijer Stolk - artvee.com

di Carlo Carnevale
Uno dei padri della psicologia moderna, William James, ha scritto che “manteniamo inalterato il più possibile della nostra conoscenza passata, delle nostre credenze e dei nostri pregiudizi… succede relativamente di rado che il nuovo sia assimilato nudo e crudo. Molto più spesso viene assimilato cotto, cucinato a fuoco lento in salsa vecchia.” Dobbiamo essere consci dei rischi di distorsione insiti nell’assimilazione del Buddhismo in Occidente; crediamo, con prudenza, che queste distorsioni non siano inevitabili. Ma avvicinarsi alla tradizione buddhista presuppone che alcuni dei nostri “vecchi pregiudizi” vengano esaminati e posti in discussione. La domanda che proviamo ad affrontare in questa sede è: comprendiamo davvero cosa sia il Buddhismo?

Il termine Buddhismo è un’invenzione piuttosto recente dei pensatori dei lumi europei del XVIII secolo, negli enciclopedici tentativi di innestare il fenomeno della religione nel dominio più ampio della sociologia comparativa e della storia secolare. Lo storicismo e il relativismo di queste prospettive si presta a ridurre il pensiero buddhista a fattori contestuali e non prende realmente sul serio le sue pretese speculative. I buddhisti stessi hanno adottato il termine Buddhismo soltanto di recente; prima di allora, si riferivano alla propria tradizione spirituale con “Dharma”, o “gli insegnamenti di Buddha”.

La nozione stessa di Buddhismo implica che questa tradizione sia un sistema filosofico coerente che procede a partire da premesse sulla base delle quali tutto il resto segue logicamente, e che il Buddha mantenesse queste pretese di sistematicità nella sua riflessione. In realtà, questa concezione non è nativa delle tradizioni buddhiste prima del loro incontro con l’Occidente; il Buddhismo è piuttosto una tradizione cumulativa con modalità di validazione fondamentalmente diverse da quelle globalizzanti e unificanti occidentali. I devoti non seguono il Buddhismo, un’ideologia sistematica di credenza e azione, ma la via del Buddha, il suo percorso, se vogliamo, delle modalità prescrittive di pratica e vita. Più che un sistema filosofico, gli insegnamenti di Buddha sono eventi, sequenze di risposte dialettiche rivolte piuttosto pragmaticamente a porre termine alla sofferenza umana liberando la mente dall’attaccamento alle cose impermanenti.

I problemi terminologici sono innervati nella stessa lingua in cui i testi tradizionali buddhisti sono scritti e comunemente letti. Per comprendere il Buddhismo dall’interno — “tramite occhi buddhisti,” per usare una frase che Richard Robinson ha votato all’Induismo — dobbiamo necessariamente approcciarci alle sue fonti primarie, ai suoi testi fondamentali. Ma rendere le espressioni idiomatiche originali in equivalenti dinamici nella lingua di destinazione non sempre si rivela un’impresa semplice.

Oltre alle classiche difficoltà semantiche e filosofiche legate alla traduzione (“ogni traduzione è un tradimento”), bisogna fare i conti con il fatto che il Buddha aderisce a una attiva e brulicante cultura orale; i suoi insegnamenti sono perfettamente integrati con le disposizioni intellettuali e morali dei suoi ascoltatori. Il Buddha stesso aveva una concezione di sé più vicina a quella di guaritore pragmatico della sofferenza umana che a quella religiosa — un medico della mente i cui rimedi sono posti in relazione a una specifica patologia dell’animo umano. Dunque una tradizione dei testi buddhisti non deve solamente rendere conto di cosa questi testi cercano di dire, ma anche di cosa essi cercano di fare.

Proprio giacché i testi del Buddhismo sono l’eco di insegnamenti orali, sono forse meglio compresi come una serie di esercizi che intendono produrre un determinato effetto mentale. Lo studioso di Buddhismo Edward Conze ha sostenuto che queste fonti primarie diventerebbero pressoché prive di significato, se non “reintegrate con la pratica meditativa”, si tratta di “documenti spirituali, e soltanto lo spirito può penetrarli.” Lo scopo del maestro, e per estensione del testo, è più quello di formare che di in-formare — in altri termini, stimolare lo studente a intraprendere una pratica di coinvolgimento spirituale. Tenere in considerazione cosa un testo ci chieda di fare significa chiedersi come ci stia dirigendo nell’agire e nel sentire, nel vivere in una determinata maniera.

Questo approccio etico (da ‘ethos’, norma di vita) alla filosofia non si applica soltanto agli antichi testi Buddhisti, ma alle opere classiche più in generale, inclusa la filosofia greca antica. Lo storico della filosofia, Pierre Hadot, in La filosofia come modo di vivere (1995) lamenta di come la filosofia per come la concepiamo oggi, specialmente in ambito accademico, è privata di uno dei suoi scopi originari: la terapia. Questi testi puntavano a formare, trasformare le anime. La filosofia come modus vivendi prevede lo studio, il dibattito, la sfida esistenziale e gli esercizi spirituali. Questi esercizi non erano intesi a produrre ragionamenti logicamente corretti, azioni giuste e rigorose teorie sistematiche ma “consistevano in effetti nel parlare bene, pensare bene, agire bene, essere realmente consci del proprio posto nel cosmo.” Gli esercizi spirituali sono esercizi perché sono pratici, richiedono sforzo e allenamento; sono spirituali perché concernono lo spirito, l’interezza del proprio modo di vivere.

Anche con queste cautele e revisioni alla nostra comprensione del Buddhismo, potremmo incappare in enormi limitazioni. Ernst Wilhelm Benz, uno studioso della religione, ha scoperto nelle sue ricerche sul campo un Buddhismo molto diverso da quello che ha conosciuto studiando in patria, a Marburg. Irriducibilmente diverso. I buddhisti che ha incontrato faccia a faccia, in un contesto vissuto della loro tradizione, avevano un rapporto intellettuale ed emotivo con questioni storiche, filosofiche e teologiche del tutto alieno a Benz. Lo studioso ci parla del suo tentativo di approcciare il Buddhismo dall’interno e di come si sia ritrovato inconsciamente a ricadere nella sua mentalità occidentale. Nella prospettiva di Benz alcuni presupposti culturali molto profondi, specifici all’Occidente, sono insidiosi e possono ostacolare la nostra comprensione del Buddhismo.

Prendiamo ad esempio la matematizzazione della natura, una struttura di pensiero squisitamente occidentale per cui tendiamo ad assumere che le proprietà quantificabili degli oggetti e dello spazio siano più reali, o quantomeno più oggettivamente significative rispetto ai contenuti “confusi” dell’esperienza quotidiana. Il problema non risiede semplicemente nel fatto che incontriamo difficoltà nel descrivere certi aspetti dell’esperienza, il punto è piuttosto che le nostre descrizioni sono parte di ciò che modella le esperienze stesse. La scienza non è soltanto uno strumento di scoperta neutrale, è qualcosa che in parte costituisce la realtà stessa che si impegna a descrivere, specialmente per quanto riguarda l’approccio scientifico allo studio della mente.

In un articolo edito da Harvard Divinity Bulletin, J. C. Clearly nota: “potrebbero esistere questioni di base riguardo alla condizione e al potenziale umano nemmeno sospettabili dalla nostra civiltà occidentale moderna, nonostante le sue pretese di portata universale e supremazia epistemologica … potrebbe esistere una forma diretta di percezione della realtà, una percezione al di fuori del condizionamento culturale, che permetta superiore oggettività ed efficienza operativa nella vita di tutti i giorni.”

Fonti & Approfondimenti:
J. C. Clearly, 2005, Buddhist Studies the Buddhist Way, Harvard Divinity Bulletin.
P. Hadot (1999), La filosofia come modo di vivere, Einaudi.

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