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In primo piano febbraio 2024

Introduzione al tema della percezione. “Tra reificazione e nichilismo – la via di mezzo” di Claudio Colaiacomo

Gli esseri umani hanno la caratteristica di vedere la realtà come esistente là fuori, come se avesse un’esistenza intrinseca. È semplicemente così che appare alla nostra coscienza. Per rendersi conto che non è così è necessario un minuzioso lavoro di analisi filosofica.
Introduzione al tema della percezione - Claudio Colaiacomo
detail of Fantastic Mountainous Landscape with a Starry Sky, Robert Caney (English, 1847 - 1911)

Tra gli autori contemporanei più interessanti in tema di filosofia buddhista tibetana c’è a mio avviso Jay Garfield, professore alla Central University of Tibetan Studies, Melbourne University e visiting scholar alla prestigiosissima Harvard Divinity School. La caratteristica più apprezzabile di Garfield, oltre alle indiscusse competenze tematiche, è la nitida capacità di esprimere concetti filosoficamente complessi in un linguaggio secolare e familiare al lettore occidentale. Ho preso spunto per questo articolo dai lavori di Garfield sul tema centrale della via di Mezzo; la percezione della realtà e l’assenza del sé. Purtroppo, molti dei suoi lavori sono scarsamente tradotti in italiano. Per completezza ho attinto a: Empty Words, Engaging Buddhism e The Fundamental Wisdom of the Middle Way.

Costruzione del sé illusorio
Una considerazione importante a mio avviso è il ruolo minore che viene dato dalla cosiddetta filosofia occidentale nei confronti della filosofia orientale e in particolare quella buddhista. Questo credo sia radicato nella formazione accademica fino agli ultimi decenni che suddivide nettamente la filosofia occidentale da quella orientale forse introducendo un bias di superiorità alla prima. A questo va aggiunta la difficoltà di studiare la filosofia orientale a causa dell’assenza di traduzioni valide fino a pochi anni fa. È di estrema utilità e ricchezza prendere spunto da entrambe le filosofie senza temere se alcune sono diventate la base per costrutti religiosi. Non c’è motivo per cui Platone debba essere considerato superiore a Nagarjuna se non a causa dell’ignoranza degli studiosi occidentali inevitabilmente esposti più a Platone rispetto a Nagarjuna. Dal mio punto di vista scelgo di non fare differenza tra filosofi occidentali antichi, filosofi cristiani, buddhisti, hindu o sufi. Credo che ognuno sia manifestazione del pensiero umano volto a porsi le medesime domande, a cercare le medesime risposte e in ultima analisi a trovare una via per la liberazione dalla sofferenza. La possibilità di prendere spunto da diverse filosofie è un’unicità dei nostri tempi. Mai prima d’ora è stato possibile attingere liberamente alla filosofia orientale. Non solo da un punto di vista di accesso ai testi ma anche per la sempre più marcata assenza di preconcetti o chiusure nelle menti della comunità che studia la filosofia. Trovo illuminante esaminare un sutra alla luce del vangelo o viceversa. Trovo illuminante studiare la meditazione dei padri del deserto alla luce della meditazione Vipassana. Persino la visione della realtà buddhista può esser vista alla luce della scienza occidentale. È una ricchezza che è divenuta realtà solo recentemente e questo è meraviglioso.

Nel Buddhismo si tende a fare differenza tra le scuole di pensiero afferenti ai tre giri della ruota del dharma ovvero ai tre grandi insegnamenti che diede il Buddha. Il primo è quello delle Quattro Nobili Verità, il secondo quello dell’assenza di un sé di cose e fenomeni, il terzo è la spiegazione dell’assenza di un sé attraverso le tre Nature: imputata, in dipendenza da cause (originazione dipendente) e vacuità. In altre parole, le tre nature sono il modo in cui le cose appaiono. Il primo modo è quello convenzionale cosiddetto dualistico ovvero gli oggetti sembrano esistere là fuori, ovvero sembra esistere un oggetto e un soggetto che lo percepisce. Il secondo modo è quello di un’esistenza dovuta a una serie di cause e condizioni, ovvero un’esistenza dovuta a un sorgere dipendente. Questo è un passo più in là del dualismo perché non assegna un’esistenza propria agli oggetti là fuori ma solo in dipendenza di cause e condizioni. La terza natura è invece quella della vacuità in cui l’oggetto esiste solo in modo convenzionale ma non in modo ultimo. Questo significa che gli oggetti non sono intrinsecamente esistenti ovvero sono vuoti di esistenza intrinseca e hanno solo un’esistenza imputata.

Gli esseri umani hanno la caratteristica di vedere la realtà come esistente là fuori, come se avesse un’esistenza intrinseca. È semplicemente così che appare alla nostra coscienza. Per rendersi conto che non è così è necessario un minuzioso lavoro di analisi filosofica. Questa percezione innata è ciò che nel Buddhismo si chiama ignoranza e che a me piace immaginare sia qualcosa di simile al peccato originale della tradizione cristiana.

Una nota di attenzione qui perché se ci poniamo l’obiettivo filosofico di realizzare la vacuità, ovvero di comprendere profondamente che la natura ultima delle cose è vuota di esistenza intrinseca, si corre il rischio di considerare tutto un’illusione indegna di essere vissuta. Paradossalmente considerare gli esseri umani vuoti di esistenza intrinseca rischia di allontanarci dalla compassione e dal desiderio che tutti gli esseri senzienti siano felici. E questo è il presupposto della nostra motivazione. Questo rischio è detto nichilismo. Al contrario è possibile comprendere la vacuità di esistenza intrinseca e allo stesso tempo comprendere che seppur le cose sono vuote di esistenza intrinseca esse non appaiono in questo modo. Per interagire con il mondo è necessario farlo attraverso l’esistenza illusoria delle cose. Per amare, studiare e comprendere la vacuità è necessario farlo attraverso la natura convenzionale delle cose, altrimenti non ci sarebbero libri, insegnanti e null’altro. È questa l’essenza della via di Mezzo, a metà tra credere completamente che le cose esistano intrinsecamente (cosa che tutti credono in maniera innata) e l’estremo opposto ovvero che nulla esista.

Nel Buddhismo o nella mistica in genere c’è una aspirazione a entrare in contatto diretto con la natura ultima delle cose attraverso la contemplazione e la trascendenza. È bene sottolineare questo aspetto perché potrebbe sembrare di andare esattamente nella direzione opposta studiando la filosofia di come appaiono le cose. Questo è un punto cruciale perché chi studia Buddhismo è generalmente attratto dalla contemplazione e trascendenza e potrebbe scoraggiarsi davanti ai profondi ragionamenti filosofici. Detto in altri termini, lo studio della filosofia potrebbe rafforzare l’ego e la percezione di esistenza intrinseca di noi stessi (magari beandoci della nostra intelligenza) o dei concetti che si studiano. Ma quella conoscenza diretta trascendentale non può prescindere da un ragionamento logico. È la metafora della zattera, dove abbiamo bisogno di un mezzo molto concreto che però va abbandonato una volta giunti a una comprensione diretta. Comprensione diretta significa che non dobbiamo più ragionarci ma a quel punto la percezione semplicemente ci appare com’è realmente. Un esempio banale di percezione diretta è il sapore della mela, possiamo studiarlo o filosofeggiare su di esso ma una volta morsa la mela sarà visceralmente chiaro senza alcun bisogno di ulteriori studi. Un’altra analogia è il firmamento. Gli antichi greci immaginavano le stelle come delle aperture nella volta celeste attraverso le quali penetrava la luce. Questa credenza convenzionale non impediva lo studio del cielo, la predizione delle eclissi e il moto celeste, era utile seppur non vero. Una volta compreso che le stelle sono in realtà delle entità luminose nello spazio, quella credenza convenzionale semplicemente crolla e, seppur il firmamento ci appare allo stesso modo, la nostra consapevolezza è diversa, più profonda.

Realizzare come le cose esistono realmente, che non hanno alcuna esistenza intrinseca, significa sradicare la causa prima della sofferenza. Nella Seconda Nobile Verità si esplicita che la brama e l’avversione per le cose sono la causa della sofferenza. In realtà queste due sono originate da qualcosa di più profondo che le comprende entrambe: l’ignoranza (menzionata nella Seconda Nobile Verità). Ignoranza di cosa? Ignoranza di comprendere come le cose davvero esistono, che le cose esistono solo convenzionalmente e non intrinsecamente. Alcuni preferiscono alla parola ignoranza la parola confusione. Le nostre menti sono confuse su come esistono realmente le cose e questo genera il desiderio di possederle o di evitarle. Quest’è la radice della sofferenza. Per giungere a questa comprensione è necessario un profondo studio filosofico fino a quando la nostra percezione della realtà non sarà chiara, non intellettualmente ma percettivamente. Solo a questo punto si può abbandonare la filosofia come mezzo utile per esser giunti a questo punto. Sarà come vedere il firmamento com’è, senza dover intellettualmente decostruire la visione ignorante degli antichi greci: fori nella volta celeste.

Comprendere esperienzialmente cosa sia il sé e cosa non lo sia è molto importante nella filosofia buddhista perché è proprio il sé l’oggetto di negazione, ciò di cui dobbiamo fare esperienza e confutare. Per questo motivo è essenziale avere una comprensione chiara del sé e delle manifestazioni che sembrano un sé ma non lo sono. È chiaro che abbiamo a che fare con qualcosa che esiste in un modo ma appare in un altro, e questo inevitabilmente complica le cose. Una cosa che appare in un modo ma esiste in un altro si chiama illusione. Un miraggio ad esempio. Bisogna fare attenzione perché le illusioni hanno la caratteristica di continuare ad apparire come tali anche dopo aver scoperto che si tratta di un’illusione. Il miraggio di pozza d’acqua sull’asfalto rovente permane anche se sappiamo che è un’illusione. Questo aspetto è chiave ed è persino rassicurante perché ci dà contezza che comprendere l’illusorietà dell’Io non lo fa scomparire in una visione nichilista del mondo. Al contrario continuo a percepire l’illusione ma sono consapevole che non è vera. Questo è un bene perché è grazie all’illusione del sé che riusciamo a interagire con il mondo. Un esempio simile si potrebbe fare con il denaro. Non è difficile comprendere che il valore delle banconote è puramente convenzionale e illusorio ma aderire a quell’illusione ci permette di operare nel mondo.
Ricapitolando: il sé va individuato chiaramente come oggetto di negazione. Vista l’illusorietà del sé, esso non scompare.

Le persone intese come i ruoli che giochiamo sopra un sé apparente, esistono in virtù delle relazioni e l’interdipendenza con gli altri. La nostra professione con cui ci identifichiamo dipende da altre persone che ci riconoscono come tali. Siamo figli perché abbiamo genitori, siamo amici perché abbiamo amici, in ultima analisi siamo persone perché siamo in relazione con tutti gli altri. Siamo persone in relazione invece di singoli sé separati da tutto. Il noi precede il me. Non è possibile esistere come persone senza che altri ci riconoscano come tali. Se affrontiamo il mondo come sé lo affrontiamo come entità separate, dove gli altri contano meno o nulla e noi stessi contiamo meno o nulla per gli altri. È una visione piuttosto aberrata ed esclusiva che crea una realtà percepita fatta di isole.
Scoprire che non c’è un sé indipendente fa paura, e potremmo avere la sensazione di perderci se scoprissimo di non avere un sé. Ma è l’esatto contrario. Fin quando crediamo di avere un sé siamo separati da tutto e la vita non ha senso. Quando scopriamo che quel sé è solo un’illusione scopriamo di esistere in quanto persone, interrelate e parte di una matrice fatta di altre persone che sostiene l’essere persona. In questa dimensione relazionale la vita prende senso, gli altri diventano importanti quanto me perché è grazie a loro che posso essere una persona. L’illusione del sé è un vero e proprio blocco per la felicità e il senso della vita. Non solo è un’illusione di esistenza ma è anche un illusione il fatto che ci darà la felicità.

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