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In primo piano aprile 2024

“La lingua come strumento cognitivo: categorie e categorizzazioni” di Domenica Romagno

Nella lingua si organizzano i dati dell’esperienza. Le lingue, infatti, sono strumenti cognitivi che veicolano non una realtà data, ma una realtà interpretata, sono sistemi funzionali all’organizzazione cognitiva dell’esperienza. Come dire che ognuno parla, in primo luogo, con sé stesso.
La lingua come strumento cognitivo di Domenica Romagno
detail of: Design for Cincinnati Union Terminal.] [Study for the color treatment of the ceiling (1933), Winold Reiss (American, 1886-1953) artvee.com

Nella lingua si organizzano i dati dell’esperienza. Il continuum della realtà extralinguistica viene sezionato in modo autonomo – e, perciò, arbitrario – da ciascuna lingua. Esistono lingue che conoscono solo tre nomi di colore di base (bianco, nero e rosso); altre che ne conoscono dodici (Berlin & Kay 1969). Lo spettro cromatico è, ovviamente, sempre lo stesso: ciò che varia è il modo di classificare il continuum delle vibrazioni luminose. In alcune lingue, questo è suddiviso in tre sezioni, corrispondenti ai colori classificati come chiari (il bianco), a quelli classificati come scuri (il nero) e ai colori intermedi (il rosso); in altre, come in italiano e nelle lingue europee, è ulteriormente articolato. In latino, ma non in italiano o in francese, che pure appartengono alle lingue romanze, figlie del latino, il tratto della brillantezza distingue il significato della parola niger (che si riferisce al nero brillante) da quello della parola ater (che si riferisce al nero opaco), così come candidus “bianco brillante” si distingue da albus “bianco opaco”. All’italiano ‘tempo’ corrispondono, in inglese, time, weather e tense, a seconda che il tempo sia quello agostiniano, meteorologico o grammaticale; all’italiano andare e all’inglese to go, il tedesco risponde con due verbi diversi, gehen e fahren, a seconda che si vada a piedi o su un mezzo di trasporto. L’italiano seleziona la relazione con ‘occhio’ come tratto pertinente alla descrizione del referente extralinguistico della parola ‘occhiali’; l’inglese glasses e il tedesco Brille selezionano il materiale (rispettivamente, il vetro e il berillio) di cui è o era fatto l’oggetto; il francese lunettes la sua forma, originariamente tipica, a mezzaluna; in italiano, inoltre, gli occhiali si dicono anche ‘lenti’, in riferimento alla funzione fisico-ottica dell’oggetto: in una stessa lingua, segni distinti possono avere il medesimo denotato ma veicolare valori descrittivi diversi. Esempi di questo tipo possono moltiplicarsi. Le lingue, infatti, sono strumenti cognitivi che veicolano non una realtà data, ma una realtà interpretata.

Il continuum noetico consente un numero potenzialmente infinito di interpretazioni, che le lingue codificano in forme discrete. Ciascuna lingua organizza lo spazio concettuale in modo diverso, poiché interpreta il mondo in modo diverso. Non tutte le categorie linguistiche, infatti, hanno manifestazioni identiche in tutte le lingue o in stadi diacronicamente diversi di una stessa lingua. Si pensi, ad esempio, alle categorie di numero e di tempo. Alcune lingue, come il greco antico, distinguono la nozione di uno non solo da quella di più di uno, ma anche da quella di più di uno uguale a due, e hanno codifiche diverse per il singolare, il plurale e il duale; altre lingue, come l’italiano e l’inglese, invece, distinguono soltanto fra singolare e plurale; altre, come l’arabo, presentano anche una forma specifica di paucale (il “plurale di pochi”), e altre ancora, come alcune lingue dell’Australia sud-orientale, di triale, che codifica la nozione di più di uno uguale a tre. In greco, il duale tende, progressivamente, a ridurre il suo campo di applicazione, fino a scomparire: il sezionamento del continuum noetico corrispondente alla categoria di numero, in greco moderno, produce due distinzioni formali e non tre, come nelle fasi più antiche della lingua.

L’indoeuropeo ricostruito, la lingua madre da cui anche l’italiano, l’inglese, il tedesco e altre lingue d’Europa discendono – stando ai risultati dell’analisi delle fasi arcaiche delle lingue indoeuropee più anticamente attestate (e.g., il greco e il vedico dell’India antica) – non conosceva la codifica grammaticale del tempo: il sistema verbale si basava sull’opposizione fra processo e stato, senza distinguere fra passato, presente e futuro (Lazzeroni 1977, Romagno 2021). Si conoscono lingue che, ancora oggi, non hanno parole, forme grammaticali, costrutti o espressioni che possano riferirsi a ciò che noi chiamiamo “tempo”, o a una qualche distinzione fra ciò che sta accadendo in questo momento, ciò che è accaduto ieri e ciò che accadrà (o potrà accadere) domani. È il caso, ad esempio, dello Hopi, una lingua amerindiana del Nord-Est dell’Arizona, il cui primo studio sistematico si deve a Benjamin L. Whorf: in Hopi, ciò che è distante nel tempo ha codifica identica a ciò che è distante nello spazio, e la vicinanza temporale si esprime allo stesso modo di quella spaziale (Whorf 1936).
In sintesi, le lingue funzionano come un sistema autonomo di classificazione e, quindi, di conoscenza, in quanto codificano i modi, diversi in epoche e luoghi diversi, in cui i parlanti rappresentano, interpretano e categorizzano il mondo. Il linguaggio della parola è il prodotto più tipico del cervello umano, «un vero miracolo, una rivoluzionaria epifania che caratterizza il funzionamento cerebrale dell’uomo rispetto a quello degli altri animali» (Maffei 2018: 71), ma è anche un linguaggio arbitrario, in quanto sociostoricamente determinato: «l’uomo, la sua unicità e la sua civiltà sono espressi da una stringa di parole che la ragione infila nella collana della storia» (Maffei 2018: 18).

Si è visto sopra come i colori formino un continuum, che ciascuna lingua seziona in modo arbitrario, classificando sotto la medesima etichetta linguistica una serie di sfumature che potrebbero essere classificate anche diversamente, e in altre lingue lo sono. Le gradazioni cromatiche percepibili dall’occhio umano superano – si calcola – gli otto milioni; nulla impedirebbe che ognuna avesse un nome di base, ma non basterebbe la vita a impararli tutti. Ciò che vale per i nomi di colore vale per ogni altro segno linguistico (Rosch 1978): ogni unità significativa classifica una categoria di nozioni ordinate in base alla somiglianza con una nozione assunta come prototipica. A questo soggiace, evidentemente, un principio di economia dei meccanismi della memoria.

I confini delle categorie sono sfumati: a questo fanno riferimento gli studiosi di scienze cognitive quando parlano di fuzzy categories. Le nozioni più periferiche – quelle con meno tratti in comune con il prototipo – possono classificarsi anche nelle categorie contigue. Comunemente, definiamo uccello il gabbiano, che vola, ha le penne ed è oviparo, ma anche il pipistrello, che non ha le penne e non è oviparo, ma vola, e lo struzzo, che ha le penne ed è oviparo, ma non vola. Se il gabbiano, come l’aquila o il passero, rappresenta il prototipo della categoria, lo struzzo e il pipistrello si collocano alla periferia, nel margine sfumato della categoria, e potrebbero anche appartenere a un’altra, se si assumessero come pertinenti altre somiglianze: in tedesco, ad esempio, il pipistrello Fledermaus, è classificato fra i topi (il “topo che svolazza”).

In sincronia, la lingua è un sistema di segni discreti sul piano della forma (il rosso ha più tratti comuni con l’arancione che con il verde, ma nulla accosta il nome ‘rosso’ al nome ‘arancione’ più che al nome ‘verde’), ma scalari sul piano del contenuto: scalari – e perciò “sfumati” – nel senso che ciascun segno è il simbolo di una categoria noetica di costituenti classificati in base non a tratti necessari e sufficienti condivisi da tutti, in ugual misura, ma a tratti – non gli stessi per tutti – che ciascun costituente condivide con un prototipo. Questo principio opera anche in diacronia: molti mutamenti linguistici sono originati dalla tensione tra forme discrete e contenuti scalari.

Si consideri, ad esempio, l’imperfetto indicativo italiano. Poniamo che la sua funzione prototipica sia la significazione del passato imperfettivo (in cui, cioè, si assume un punto di vista interno all’evento): ‘ieri ero sulla spiaggia quando ti ho incontrato’. Il passato non appartiene all’hic et nunc, è non attuale. Ma anche ciò che è immaginato o irreale è non attuale; e, infatti, l’imperfetto, nel suo uso cosiddetto “ludico”, può significare l’irreale (o l’immaginato): ‘facciamo che tu eri la regina”. Il tratto della temporalità, [+ passato], qui non è pertinente: la parte della regina si recita, addirittura, in un momento successivo a quello dell’enunciato. È pertinente, invece, il tratto della non attualità: “stipuliamo che tu fai la parte della regina (ma non lo sei)”. Allo stesso principio si riconduce la progressiva sostituzione dell’imperfetto indicativo al congiuntivo e al condizionale, che osserviamo in atto nell’italiano contemporaneo: ‘se eri ammalato, non uscivi di casa’ (= “se fossi ammalato, non usciresti di casa”), ‘se studiavi, eri promosso’ (= “se avessi studiato, saresti stato promosso”), ‘volevo dell’acqua, per favore’ (= “vorrei dell’acqua, per favore”), ‘non so se volevi aggiungere qualcosa’ (= non so se [tu] voglia aggiungere qualcosa”). Anche in questi casi, la temporalità non è pertinente; lo sono la possibilità e l’irrealtà. Nell’imperfetto italiano, dunque, la categoria dell’indicativo, la cui funzione prototipica è la codifica della fattualità, tocca e si sovrappone alle categorie modali che codificano la non fattualità o la controfattualità.
A ben vedere, questa è la strategia – o una delle strategie – che ha prodotto la fusione (il cosiddetto sincretismo) dei casi nelle lingue indoeuropee. Fra genitivo e ablativo non c’è possibilità di sovrapposizione nelle funzioni prototipiche: altro è ‘la fuga dei nemici’, altro è ‘la fuga dal pericolo’. Ma c’è possibilità di sovrapposizione concettuale fra ‘la comunicazione del Rettorato’ e ‘la comunicazione (che viene) dal Rettorato’. Questo rappresenta il punto di crisi, da cui può nascere il sincretismo: in greco antico, in tutte le declinazioni, e in sanscrito, nel singolare di tutte, salvo che di quella in -ă (non a caso, la più frequente), ablativo e genitivo sono sincretizzati. In lingue come il latino, l’italiano o l’inglese, le nozioni di luogo e di strumento sono codificate, tipicamente, con marche o costrutti di locativo e di strumentale, rispettivamente: e.g., sto chiuso in casa vs. taglio la carne con il coltello. Il luogo, però, può essere anche uno strumento (e viceversa): in italiano, infatti, possiamo dire sia vado a Roma in treno sia vado a Roma con il treno. La stessa alternanza di locativo e strumentale, tuttavia, non può aversi – o, almeno, non può aversi ancora – nei prototipi delle rispettive categorie: non possiamo dire *taglio la carne nel coltello o sto chiuso con la casa.

I sistemi linguistici sono instabili: se – come nei casi appena citati – due categorie possono fondersi, nuove categorie possono costituirsi ed espandersi. Un caso molto noto è quello dei cosiddetti “preteriti forti” inglesi, quelle forme di passato, cioè, che si discostano dal tipo talked, walked, whatched (in cui –ed si aggiunge al tema del presente: talk – talked, walk – walked, etc.) e mostrano, invece, un cambiamento della vocale interna: e.g., sing – sang, spring – sprang. Questa forma di passato è una categoria recessiva (tende, cioè, a scomparire), ma si conserva e – anzi – diventa produttiva in un gruppo di verbi orientati intorno a un prototipo (del tipo sing – sang, spring – sprang) e legati a questo da un rapporto di somiglianza: i verbi attratti nella categoria presentano uno o più tratti in comune con il prototipo, ma non necessariamente tutti (Bybee & Moder 1983)

Il modello connessionista si applica in questo e altri casi alla morfologia: il parlante, posto di fronte a forme irregolari (siano esse prodotto di innovazione o residui), le riordina astraendo alcuni tratti comuni (uno “schema”, secondo la definizione di Bybee & Slobin 1982), che gli consentano di prevederle e, quindi, di produrle se non con certezza, almeno con un certo grado di probabilità. Certezza – e, perciò, automatismo nella produzione – che può crescere nel volgere della storia linguistica: una regola, nata come probabilistica, può progressivamente diventare categorica (Ramat 1985).
Quanto più una categoria si allarga, tanto più le connessioni con il prototipo si attenuano, fino a perdersi: è sufficiente che i costituenti condividano almeno un tratto fra loro. Dato, ad esempio, un prototipo AB, la categoria può allargarsi fino a comprendere QR e oltre, secondo un percorso del tipo: AB – BC – CD – DE – EF – FG, e così via, in cui CD, DE etc. non hanno nulla in comune col prototipo AB, ma hanno qualcosa in comune con almeno un altro costituente della categoria (CD ha qualcosa in comune con BC, DE con CD, e così via). È il modello della cosiddetta “somiglianza familiare” (Rosch & Mervis 1975), che risale all’ultimo Wittgenstein. Questo modello si riconosce a tutti i livelli dei sistemi linguistici e in lingue anche molto diverse fra loro, dal dialetto di Gallipoli (Romagno 2004) al dyirbal, lingua aborigena del Queensland australiano (Lakoff 1987).

Fino ad ora si è parlato di categorie che si formano e si espandono, e di categorie che si fondono. Si conoscono anche casi di categorie che si scindono. Immaginiamo una lingua che non dia un nome – poniamo – all’arancione, ma classifichi le sue variazioni cromatiche nelle categorie del giallo e del rosso (numerosi esempi in Berlin & Kay 1969). Se, nel corso della storia, l’arancione prenderà un nome, nel continuum fra le categorie del giallo e del rosso si isolerà un punto cromatico assunto come prototipico. A quello si darà un nome e sotto quel nome si classificheranno le altre gradazioni del continuum.
Lo stesso sarà accaduto nelle lingue romanze, quando nel continuum dei contenuti noetici del perfetto latino si è identificato un punto, corrispondente al passato prossimo italiano: al latino FĒCI l’italiano risponde con ‘feci’ e ‘ho fatto’. I confini fra le due nuove categorie sono sfumati; e, infatti, nelle varietà italiane settentrionali domina il passato prossimo; in quelle meridionali, il passato remoto.

In conclusione: le categorie noetiche in cui l’uomo organizza linguisticamente i dati dell’esperienza non sono discrete, ma scalari; sono “categorie naturali”, nel senso di Rosch (1973).
La lingua, ovviamente, è anche uno strumento per comunicare l’esperienza così organizzata. Ma c’è da chiedersi se il fine della comunicazione sia il principio ultimo, fondante, che presiede all’organizzazione dei sistemi linguistici. Questo, piuttosto, andrà individuato in una dimensione neurocognitiva sovraordinata: l’economia dei meccanismi della memoria. I parlanti tendono, invariabilmente, a favorire la memoria procedurale, cioè la memoria di regole o di connessioni che producono automatismi, e ad alleggerire la memoria dichiarativa, cioè la memoria di dati e di informazioni immagazzinati uno per uno. Questo principio si osserva operare in sincronia, nell’organizzazione dei sistemi linguistici, e in diacronia, nei percorsi del mutamento linguistico.

Nelle lingue del mondo, si osserva la tendenza a raggruppare le parole in classi. Nei tipi linguistici come quello dell’italiano e del greco, che chiamiamo flessivo poiché le parole si flettono in forme diverse per codificare diverse relazioni grammaticali (e.g., di numero, di tempo, di persona), una fondamentale classificazione è quella che produce i cosiddetti paradigmi: ad esempio, nel dominio verbale, ‘amo – ami – ama – amare’; ‘leggo – leggi – legge – leggere’, etc. I parlanti italiano non hanno bisogno di memorizzare, uno per uno, i paradigmi di ‘amare’, ‘leggere’, ‘lodare’, ‘scrivere’, ‘sentire’, etc. Ma, sulla base di uno o più tratti comuni a una classe di parole, producono automaticamente le forme corrette: producono, cioè, ‘ama’ come ‘loda’ e ‘scrive’ come ‘legge’. Se l’uscita dell’infinito è in ‘-are’, il parlante elabora l’intero paradigma di qualsiasi verbo in ‘-are’ applicando una regola sovraordinata alla classe di verbi con uscita dell’infinito in ‘-are’, regola diversa da quella che applica per la produzione e la comprensione dei verbi con uscita dell’infinito in ‘-ere’ o in ‘-ire’. Tratti quali la desinenza di infinito in italiano funzionano da condizioni strutturali dei paradigmi, consentendo la produzione (e la comprensione) delle forme corrette, attraverso l’applicazione automatica di una regola che opera non al livello del singolo costituente, ma a quello dell’intera classe di parole. Le lingue come l’italiano o il latino, cosiddette flessive – quelle lingue, cioè, in cui le parole si flettono in forme diverse per veicolare diverse informazioni grammaticali: e.g., lod-o, scriv-o = indicativo presente 1a singolare vs. lod-a, scriv-e = indicativo presente 3a singolare – non ammettono, insomma, né una combinazione libera di lessemi (e.g., ‘lod-’, ‘scriv-’) e morfemi desinenziali (e.g., ‘-a’, ‘-e’: terza singolare del presente indicativo), né una distribuzione libera dei morfemi desinenziali: ciascun lessema, infatti, ammette una e una sola combinazione (l’italiano ‘lod-’ di ‘lodare’ può prendere soltanto la desinenza ‘-a’, e non anche ‘-e’ o ‘-i’ alla terza persona singolare del presente indicativo), e i morfemi desinenziali sono dipendenti l’uno dall’altro (‘loda’ implica ‘lodano’, ‘lodato’, ‘lodavi’, etc.). Il sistema flessionale è un sistema implicazionale (Carstairs 1987). Un tale ordinamento di unità significative, basato su una doppia implicazione, dipende da un principio di economia della memoria (cfr. Lazzeroni 2005). Se in una lingua ogni verbo e ogni nome potessero scegliere liberamente una desinenza per ogni combinazione di tempo, numero, persona, caso, etc., le combinazioni possibili sarebbero di numero elevatissimo e i parlanti dovrebbero conoscere tanti paradigmi quanti sono i verbi e nomi di quella lingua: certo – come nel caso dei nomi di colore di base – non basterebbe loro l’intera vita per impararli tutti. Non sarà un caso che i paradigmi cosiddetti “irregolari” (e.g., italiano ‘andare’, ‘essere’), che mostrano la necessità di essere memorizzati uno per uno, corrispondano, invariabilmente, nelle lingue del mondo, alle forme o alle parole con il più alto indice di frequenza: la frequenza, da sola, è un potente ausilio alla memoria.

Anche l’economia dei mutamenti linguistici spesso si configura come economia della memoria. Un mutamento, quando, all’inizio, colpisce soltanto alcune unità linguistiche (poniamo, ad esempio che colpisca soltanto alcune parole) crea irregolarità, dissimmetria. Le forme nuove vengono memorizzate una a una e non prodotte automaticamente mediante l’applicazione di una regola (e.g., se l’infinito è in ‘-are’, allora la terza persona singolare del presente indicativo è in ‘-a’; se in ‘-ere’, in ‘-e’, e così via). Ma il parlante – già si è detto – tende a ordinare le unità colpite dal mutamento (e, il più delle volte, a riordinare quelle residuali) in uno “schema” e, cioè, sul modello della somiglianza familiare. Lo schema non consente automatismi, poiché non comprende un numero finito di tratti condivisi tutti, in ugual misura, da tutti i costituenti della categoria, ma facilita l’accesso al lessico, attraverso inferenze probabilistiche. Lo schema, pertanto, non sopprime il carico della memoria, poiché non funziona come una regola, ma lo riduce, restringendo le opzioni.
E ancora, molti mutamenti procedono in modo simmetrico: passano, cioè, da un singolo costituente categoriale al taxon sovraordinato di categoria (al livello, cioè, che comprende tutti i costituenti di quella categoria). Dati, ad esempio, tre elementi ‘x1’, ‘x2’, x3, appartenenti alla categoria ‘X’, un mutamento, se colpisce ‘x1’, tende progressivamente a comprendere anche ‘x2’ e x3. Il parlante, che prima applicava un’unica regola di funzionamento a tutti i costituenti di ‘X’, nella fase in cui ‘x1’ (colpito dal mutamento) si comporta in modo diverso da ‘x2’ e da x3, deve memorizzare regole diverse per ciascun costituente categoriale. Se la regola nuova si applica non più al costituente ‘x1’, ma all’intera categoria, la memoria dichiarativa si alleggerisce, a vantaggio di quella procedurale. Gli esempi di mutamenti simmetrici sono numerosissimi, e si osservano in lingue anche molto diverse fra loro.

In conclusione: la lingua è un sistema memorizzato e, perciò, funzionale ai meccanismi della memoria, volto anche alla comunicazione; ma, soprattutto, funzionale all’organizzazione cognitiva dell’esperienza. Il che è come dire che si parla, in primo luogo, con noi stessi. Ciò, del resto, corrisponde, pragmaticamente, a un’auspicabile realtà.

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