di Carlo Carnevale
Per come descritta dal linguista George Lackoff, una metafora spaziale (anche orientational metaphor) è una metafora concettuale in cui gli elementi coinvolti sono spazialmente relati l’un l’altro, vale a dire che sono rispettivamente sopra o sotto, dentro o fuori, davanti o dietro, in profondità o in superficie, al centro o alla periferia, e così via (Lackoff, 1980).
Le persone navigano lo spazio reale abitualmente e sono altamente familiari con le logiche spaziali; sono abituate a codificare e quindi memorizzare relazioni tra elementi in termini spaziali. Nel linguaggio, le rappresentazioni spaziali sono utilizzate di frequente in forma metaforica per veicolare uno o più attributi e per catalogare e differenziare eventi mentali.
Come le metafore spaziali operino all’interno della cognizione umana è argomento di interesse per la psicologia cognitiva e la linguistica, che le comprendono come uno strumento essenziale di mappatura cognitiva del mondo, integrato in una ampia rete associativa.
Nello specifico, tramite esperienze percettive e sensoriali del mondo da un punto di vista spazializzato (locational perspective), vengono codificate informazioni consistenti e ridondanti e a cui attribuiamo un significato semi-stabile; il mondo è catalogato in networks di mappe mentali (rappresentazioni interne del mondo e delle sue proprietà spaziali), che permettono al soggetto di accedere alla conoscenza spaziale e allo sviluppo cognitivo in quella direzione, grazie al costante feedback online nell’esperienza embodied della navigazione dello spazio.
A ben vedere però, la psicologia cognitiva classica è stata criticata per il suo approccio computazionale (ossia concettualizzare operativamente la mente come un computer, un operatore di simboli con degli input manipolati al fine di restituire un output in forma di altri eventi mentali o fisici) e rappresentazionale (ossia l’idea secondo la quale accediamo alla realtà esterna tramite rappresentazioni interne della stessa); aspetti che in larga misura ricalcano dicotomie costruite su metafore spaziali (interno/esterno, software/hardware).
Sia nella tradizione buddhista che in quella psicodinamica, la metafora spaziale rappresenta una mappatura fondamentale per pensare al sé, ma al contempo viene approcciata criticamente e problematizzata per allontanare una concezione oggettuale del sé (Epstein, 1995).
Per quasi chiunque approcci l’esperienza meditativa, le premesse operative sottostanti circa la natura del proprio sé coinvolgono quasi sempre delle metafore spaziali. Questo è vero anche per quanto riguarda le fasi iniziali della psicoterapia. Tendiamo a pensare al sé alla maniera di Freud, vale a dire in termini spaziali: come entità fatta di margini, confini, strati, un nucleo centrale.
Una delle conseguenze di questa modalità di pensiero è che va a nutrire la tendenza a cercare un core o un vero sé quintessenziale al centro del nostro essere. Un’altra conseguenza è il desiderio (longing) di completezza (wholeness) riportato comunemente nelle fasi iniziali di meditazione e psicoterapia (Epstein, 1995); laddove solamente all’interno della metafora spaziale questa ricerca può sembrare così urgente.
Secondo Mark Epstein (autore di Pensieri senza un pensatore), all’inizio della pratica meditativa, le metafore spaziali sono predominanti.
L’io si divide, con un sé riflessivo che esercita consapevolezza su oggetti mentali spazializzati scaturiti da un sé pre-riflessivo, e sul corpo. Spesso la mente viene esperita come uno spazio ampio all’interno del quale coesistono varie parti del sé; “come una grotta da penetrare”, o come “ripercorrere una pianta fino alle sue radici”. I meditatori novizi spesso si confrontano con una sensazione di vuoto o svuotamento, accompagnata da un desiderio di completezza o pienezza.
Per quanto riguarda la psicoterapia, in termini psicodinamici questo è interpretato come un segno di qualche aspetto estraniato o disconosciuto di sé che deve essere integrato da un intervento terapeutico. Anche in questo contesto, la principale metafora operativa rimane una metafora spaziale; la concezione cosale (thingness) del sé, la possibilità di identificare un nucleo traumatico distale, le radici, il centro, i propri desideri più autentici celati nel profondo.
“La meditazione, partendo da questa concezione spaziale, procede poi a manipolarla” dapprima gentilmente, “come un gatto con un gomitolo”, ma infine esplodendola nell’intensità concentrata di quello che Daniel Goleman chiama la “mente meditativa.”
In effetti, la caratteristica distintiva della meditazione buddhista è che tenta di eradicare, una volta per tutte, la concezione del sé come ente spazializzato.
Rivolgendo ripetutamente la propria attenzione verso un’ancora oggettuale— una parola, un suono, una sensazione, un’immagine visiva o un’idea— si generano sensazioni di tranquillità in mente e corpo (Epstein, 1995). Il rumore associativo della mente discorsiva si attutisce e hanno luogo esperienze di giubilo. Eppure, nelle psicologie buddhiste tradizionali, queste esperienze vengono trattate primariamente come collaterali alle pratiche di concentrazione. Si è costantemente messi in guardia dal loro potere seduttivo ma lo sviluppo della concentrazione è nondimeno incoraggiato e perseguito.
Questo perché le pratiche di concentrazione riescono ad alterare le metafore spaziali del sé.
Nulla caratterizza stati sviluppati di Ekaggatā (one-pointedness) quanto la dissoluzione spaziale del sé, dei suoi confini; e quanto sensazioni di unione e continuità con l’universo che Freud ha definito sentimenti oceanici.
Ciò che operano le pratiche di concentrazione, partono dalla prospettiva spaziale del sé come vuoto, cavo, incompleto o rinchiuso e lo espandono all’infinito, conferendo al meditatore la lucidità di uno spazio aperto, di una radura (Lichtung). Nelle pratiche di concentrazione avanzate, il corpo finisce per scomparire: cessano le sensazioni fisiche localizzabili, rimangono solo esperienze diffuse di gioia, grazia e spazio aperto. In stati ancora più approfonditi, anche queste esperienze diffuse si dissolvono, lasciando solamente la sensazione dello spazio.
“Rimane una sensazione del sé come spazio vasto” (Epstein, 1995), connesso in genere a “una mente universale che permea tutte le cose”.
La metafora spaziale, in definitiva, si preserva, e il meditatore rimane vulnerabile al tipo di compiacimento da cui il Buddha ci mette in guardia nella Seconda Nobile Verità.
Il compito del meditatore diventa quello di scorgere i limiti anche di questa visione espansa del sé, riconoscere la seduzione del rimanere nascosti in questo senso di spazio ineffabile come tale e dissociarsi dalla sofferenza che l’attaccamento a questo tipo di stati comporta.
Dal punto di vista della pratica buddhista, la ragione per sviluppare la concentrazione è tacitare la mente abbastanza da consentire un’indagine ravvicinata della natura del sé, rinunciando di volta in volta agli schemi categoriali imposti. Gli stati del sé (self-states) che vengono scoperti nel processo procurano nuove opportunità di esaminare la presa saldissima che certe esperienze idealizzate possono avere su di noi.
Fonti & Approfondimenti:
Lackoff G. (1980), “Metaphors We Live By”.
Mark Epstein (1995), “Thoughts without a Thinker”.