L’argomento è davvero un enigma, ma possiamo provare a tracciare alcuni punti essenziali del tema che riguardano non solo la coscienza in sé ma anche il suo posto nel mondo. La coscienza è infatti il più grande e irrisolto problema fin dalle origini della filosofia: tutto quello che vediamo, facciamo, codifichiamo, decidiamo e la stessa scienza sono un prodotto della mente e abitano il mondo della coscienza. L’intera visione del mondo, la cultura, la scienza dipendono dalla coscienza e dall’interfaccia mente-realtà. Quindi ciò che è ritenuto obiettivo non supera il livello della soggettività condivisa e la sua “obiettività” è definibile come livello di corrispondenza tra teorie e fatti.
La scienza della coscienza in quanto tale nasce negli anni ottanta del XX secolo, quindi con più di tre secoli di ritardo rispetto alla nascita delle scienze galileiane. Pur disponendo oggi di una grande mole di dati scientifici sulla coscienza, forse rimaniamo a un livello paragonabile a quello in cui stava la fisica ai tempi di Galileo. Per complesse ragioni storico-politiche e non scientifiche, la scienza si è infatti occupata solo del mondo fisico e la medicina della macchina terrena dal corpo cartesiano, perché l’anima è stata delegata alla sola competenza della teologia. Del resto anche la psicologia moderna non nasce dalla medicina ma dalla filosofia.
La coscienza emerge dal cervello in modo ancora misterioso. Se la coscienza è considerata dalle neuroscienze come un prodotto emergente dalla complessità del cervello, non è affatto chiaro come qualia (gli elementi dell’esperienza), idee, concetti e significati emergano dai circuiti cerebrali né quale sia l’interfaccia tra queste due dimensioni. Ma se la coscienza è proprietà emergente, per definizione non può essere interamente ridotta ai circuiti cerebrali; anche se il riduzionismo riuscisse a completare il suo progetto, alla fine rimarrebbero solo attività elettrica e neurotrasmettitori e la coscienza scomparirebbe. Quindi nel modello risultante non esisterebbero più qualia né significati. Ad esempio, cos’è la rossità del rosso? Non è una lunghezza d’onda della luce, ma un’esperienza irriducibile se pur da essa elicitata. Il rosso (e così tutte le percezioni) non sono proprietà obiettive ma modi di percepire la realtà; hanno dunque una loro correlazione con le sue proprietà fisiche ma non sono la stessa cosa. Inoltre la normalità è un concetto convenzionale di natura statistica: se fossimo tutti daltonici e solo l’1% della popolazione vedesse i colori, probabilmente la loro visione sarebbe considerata una strana forma di allucinazione. Lo stesso vale per il dolore, problema clinico di enorme importanza. Il dolore è infatti esperienza soggettiva e non può essere ridotto alla sola stimolazione delle fibre dolorifiche, come vorrebbero i fisicalisti. È dunque indispensabile non rimanere intrappolati negli angusti limiti di in un materialismo eliminativista, perdendo il vissuto senza il quale non esisterebbero né la scienza e né la realtà (come è percepita e conosciuta).
Poiché in ogni dato momento storico la conoscenza scientifica è parziale, anche della coscienza (come di ogni altro fenomeno) abbiamo una conoscenza limitata; è dunque ragionevole ritenere che ci siano proprietà della coscienza ancora sconosciute e che la sua natura rimanga sfuggente. Riusciamo a definire meglio i suoi aspetti ordinari: sono sveglio, mi rendo conto di me stesso e degli altri, penso, sono autocosciente e così via. Tuttavia abbiamo un’idea almeno in parte ingenua della normalità della coscienza. Definire la coscienza normale è tutt’altro che facile, se possibile. La coscienza infatti è diacronica (ossia si modifica nel tempo) e la sua espressione è culturalmente selezionata (quella di un occidentale, di un orientale e di un aborigeno non sono affatto identiche), ma anche nello stesso gruppo sociale i suoi confini sono assolutamente incerti. Possiamo immaginare la sua distribuzione come una gaussiana molto allargata, i cui confini sono tra il santo illuminato da una parte e lo psicopatico dall’altra, fatto che ha da sempre suggerito una parziale sovrapposizione di genio e follia (in quanto entrambi fuori dalla norma, se pur su versanti opposti). È inoltre opportuno astenersi da una rigida classificazione dicotomica in termini di normalità o patologia e includere una vasta area nel mezzo costituita da espressioni non ordinarie della mente (NOME); queste ultime non sono disfunzionali né di per sé meno valide della coscienza “normale”, ma appaiono apparentemente strane per la loro deviazione rispetto alla Weltbild (immagine del mondo) accettata e allo Zeitgeist (lo spirito del tempo) in cui si è immersi.
In altre parole le NOME hanno profonde implicazioni epistemologiche. Del resto, è da considerare che la scienza stessa, come afferma Antiseri, è una storia di bellissime teorie fatte saltare in aria da fatti contrari, dove le scoperte e le teorie che sovvertono le conoscenze precedenti sono di norma rifiutate a priori e criticate aspramente prima di affermarsi, come è successo nel XX secolo con la teoria della relatività e la fisica quantistica. Come afferma Schopenhauer, la verità nasce come paradosso e muore come ovvietà. Quando Einstein nel 1905 ha ipotizzato che l’esistenza dell’etere non era necessaria se si ammetteva che il tempo non era universale, appariva come l’unico “pazzo-genio” a sostenere una tale stranezza in un mondo che non riusciva a comprenderla. Il criterio diagnostico differenziale tra genio e follia è stato già ben definito da Platone nel Fedro: “Esistono due tipi di mania, quella prodotta dall’infermità e quella prodotta dalla liberazione divina dal giogo dei costumi e delle abitudini”. In altre parole, il grande scienziato può essere (e forse deve) essere visionario, perché la scienza, come l’arte, ha il compito di rendere visibile l’invisibile. Come in modo più penetrante afferma Lao Tze “il saggio è colui che vede l’invisibile, ossia ciò che è invisibile allo stolto”.
Per aprire la mente alle NOME è doveroso partire dalla definizione di William James (1917):
La nostra coscienza ordinaria non è altro che un tipo particolare di coscienza […] mentre tutto ciò che la riguarda comprende forme potenziali di coscienza interamente differenti. Noi possiamo passare la vita senza nemmeno sospettare la loro esistenza; ma applicate lo stimolo necessario, e in un attimo essi sono lì nella loro completezza,
tipi definiti di mente che probabilmente hanno da qualche parte il loro campo di applicazione e adattamento. Nessun resoconto dell’universo nella sua totalità può essere definitivo se non considera queste altre forme di coscienza.
Possiamo allora riconsiderare la teoria dei tre mondi introdotta da Popper & Eccles negli anni ’80 del secolo scorso, e in particolare la sua recente versione neurofenomenologica: 1) il Mondo 1, ossia il mondo della realtà fisica; 2) Mondo due, costituito da cervello, organi di senso e processi di codificazione cerebrale; 3) Mondo 3, costituito dalla coscienza e dall’inconscio, comprendente linguaggio, filosofia, scienza, arte, miti e tutto quello che appartiene al mondo interiore. Il Mondo 3 è il risultato delle interpretazioni delle informazioni che abbiamo ricevuto dal Mondo 1, quindi è Weltbild. Ne consegue che le scienze possono fornire modelli parziali efficaci in grado di fare previsioni corrette, più che conoscere la natura intima della realtà. Il Mondo 2 è il trasduttore che raccoglie informazioni e consente la loro trasformazione in immagini mentali. Amo chiamare il Mondo 3 la stanza degli specchi perché riflette la realtà senza esserlo. È l’eterna metafora dello specchio, tanto è vero che da sempre usiamo il verbo riflettere come sinonimo di pensare. Tra il Mondo 1 e 3 c’è un’inscindibile interrelazione ma non identità e questa relazione è bidirezionale, perché con la creatività i prodotti della mente collassano nella realtà diventando parte del Mondo 1; anzi, essa ha modificato il Mondo 1 in modo così pervasivo che oggi stiamo vivendo nell’Antropocene, con tutti i pregi e grandi pericoli legati alla catastrofe ecologica incombente.
La relazione tra mente e cervello ha alla base l’estrema complessità e plasticità sia del cervello sia della mente. Siamo creature dinamiche in incessante trasformazione (come il resto del cosmo). Il concetto di identità, ossia di ciò che pemane in una totale trasformazione, solleva aporie di difficile soluzione, già poste nell’antica Grecia con il mito della nave di Teseo. Infatti noi siamo sempre gli stessi dalla nascita alla morte ma in una continua e totale trasformazione della mente e del corpo (comprendente anche la sostituzione delle molecole che lo costituiscono). Questo suggerisce che la nostra identità si collochi sullo sfondo dello spazio, del tempo e della materia. L’unità mente-cervello-corpo si trasforma con l’esperienza, l’allenamento, lo studio, la professionalità, con tutto quello che perseguiamo nella vita, in cui la motivazione gioca un ruolo di primo piano.
La mente non è un epifenomeno passivo dei circuiti cerebrali, come pretendono gli assiomi del materialismo. Oggi ci sono chiare evidenze della capacità di tecniche introspettive intenzionali, come la meditazione e l’ipnosi, di modificare funzionalmente e anche plasticamente l’attività del cervello. Dunque non c’è solo una gerarchia bottom-up dal cervello alla mente (l’unica ammessa dalla visione materialista), ma una gerarchia bidirezionale – più affine al paradigma del Taoismo con la sua polarità Yin-Yang e al principio di complementarietà della fisica quantistica – in cui il cervello e la mente si modificano reciprocamente. In altre parole, il problema critico nella fondazione della scienza della coscienza è di natura metafisica. Secondo Chalmers lo studio della coscienza implica due problemi. Il problema facile e il problema difficile. Il primo è quello che conosciamo, ossia la ricerca dei neurocorrelati della coscienza. Intendiamoci, non è per niente facile, anzi è molto complesso e tutt’altro che concluso, ma è facile perché non pone problemi epistemologi: il metodo è disponibile e sappiamo cosa dobbiamo fare. Il problema difficile invece è costituito dalla natura del vissuto soggettivo, ossia quello dei qualia, che non è traducibile tout court in neurotrasmettitori e circuiti cerebrali.
Il problema è essenzialmente metafisico perché l’idea della riduzione da mente a cervello è un assunto di matrice monista materialista, mentre nell’acceso dibattito sulla fondazione della coscienza chi considera che l’esperienza non sia riducibile al cervello è stato “tacciato” di dualismo (una sorta di insulto dalla prospettiva dello scienziato “duro”). Nell’ambito della coscienza, il monista materialista si occupa dei soli neurocorrelati mentre chi sostiene l’hard-problem riconosce il valore dell’esperienza e del suo significato. Non sono affatto posizioni incompatibili se non ci si irrigidisce in una prospettiva limitata; sono le due facce della stessa medaglia, fatto che richiede una prospettiva più ampia e un allargamento del paradigma. Fortunatamente sta emergendo in letteratura una crescente insoddisfazione per la visione rigidamente materialista e sono stati introdotte recentemente visioni moniste più ampie comprendenti sia la dimensione materiale sia quella mentale, una via necessaria per superare i limiti sia del materialismo sia del dualismo.
In ogni caso, vale la pena di sottolineare che il monismo materialista è autocontraddittorio sul piano metafisico. Infatti ammette solo la materia, rifiutando a priori ciò che appare immateriale. Non dimostrando la sua inesistenza, per rifiutare la dimensione immateriale deve implicitamente ammetterla, rimanendo così in una posizione dualista latente. Inoltre il materialista fa affidamento sulla sua mente – quindi su ciò che rifiuta – per argomentare le proprie convinzioni. Come diceva saggiamente Zhuangzi, grande filosofo taoista del IV secolo a.C.: “Adottare quello che è affermato è adottare anche ciò che è negato”. Sul piano razionale il materialismo non è quindi sostenibile.
Il pensiero postaristotelico occidentale ha basato la conoscenza razionale su principi primi e assiomi non dimostrati, i cui risultati rimangono necessariamente dóxa (conoscenza relativa, opinione), come affermato da Aristotele stesso. Questo ha portato inconsapevolmente a proiettare le categorie mentali sulla realtà costringendo la Natura entro i propri schemi, per poi credere che ciò che si è così conosciuto sia “obiettivo”. La scienza, e soprattutto la fisica quantistica, ha progressivamente smontato tutti gli immutabili e le certezze (o forse pseudocertezze) ricercate per 2000 anni, non di rado permeate dal realismo ingenuo e dal dogma dell’immacolata percezione (ossia ritenere che la realtà è quello che si vede così come lo si vede), un problema già ben definito da Kant nella Critica della Ragion Pura come l’inevitabile illusione naturale dell’uomo, che prende nomi, concetti ed etichette per la realtà in sé. Questa illusione corrisponde a quella che Vaselli ha definito come eresia moderna, dalla quale non è affatto immune nemmeno la scienza.
Tornando alle NOME, almeno alcune di esse, come la meditazione, l’ipnosi e gli stati superiori di coscienza (che vanno dallo sviluppo del Sé all’individuazione di Jung, alla spiritualità fino all’illuminazione) possono essere considerati, più che stati alterati di coscienza, come un plus rispetto alla coscienza ordinaria per il loro valore cognitivo e metacognitivo. Questa è la ragione per cui da tempo propongo di superare il concetto di stato alterato di coscienza (un calderone comprendente condizioni sia fisiologiche sia patologiche) e raccogliere quelli non patologici nel concetto di NOME, termine che evidenzia la deviazione rispetto alla Weltbild dominante e non una disfunzione della coscienza. Vale la pena di menzionare che la spiritualità – tradizionale fumo negli occhi per lo scienziato materialista – è stata recentemente considerata dall’Organizzazione Mondiale della Sanità e dalla World Psychiatric Association come elemento fondamentale per la salute e per il benessere, per il senso e la qualità della vita.
Le esperienze di pre-morte (o near-death experiences, NDE) sfidano le nostre attuali conoscenze sulla fisiologia della coscienza. Esse avvengono in tutte le condizioni in cui vi sia una abolizione di coscienza in condizioni critiche ma talora si verificano anche in condizioni fisiologiche. Esse comprendono alcuni elementi principali quali: a) entrare in un tunnel con o senza luce alla fine; b) incontrare vedere un entità, spesso definita come un essere di luce; c) avere un’esperienza di uscita dal corpo in cui viene visto il proprio corpo disteso e i medici che lo rianimano; d) una revisione olografica della propria vita); f) l’incontro di parenti o persone sconosciute decedute con una comunicazione diversa da quella ordinaria verbale, come fosse telepatica; f) sentimenti di serenità e di amore incondizionato; g) la comunicazione da parte dei parenti o delle entità incontrate di dover tornare indietro, fatto seguito dal ritorno nel proprio corpo. Gli elementi menzionati delle NDE simili in tutto il mondo; sono quindi universali, potremmo dire archetipiche. Non ci sono evidenze che le NDE siano il mero prodotto di un disordine cerebrale; anzi il delirium in terapia intensiva è ben conosciuto ha una fenomenologia totalmente diversa. Ci sono inoltre diversi trait d’union tra NDE, esperienze mistiche, meditazione e ipnosi.
Le interpretazioni scientifiche di matrice meccanicista non hanno fornito alcuna dimostrazione, mentre alcune di esse sono già smentite da altri fatti noti incompatibili con esse. Il problema può essere affrontato correttamente distinguendo i fatti dalle supposizioni e le ipotesi dalle dimostrazioni considerandone gli aspetti epistemologici, compresi i pregiudizi scientifici a essi correlati. Ad esempio, le esperienze di uscita dal corpo durante le NDE sono del tutto diverse dalle autoscopie riportate dai pazienti psicopatici e la coscienza appare ancor più lucida di quella normale, mentre rari ma ben documentati casi, hanno testimoniato cosa è successo durante le manovre di rianimazione. Il primo e più famoso è il caso dell’uomo della dentiera, pubblicato su Lancet nel 2001 nell’ambito di uno studio su 344 arresti cardiaci. Si tratta di un paziente la cui dentiera risultava persa dopo le manovre di rianimazione, il quale ha testimoniato dov’era la dentiera (rimossa per consentire l’intubazione) e tutto quello che era successo durante le manovre di rianimazione, avendole viste dall’alto mentre era fuori dal corpo. In un altro studio del 2014 su 2060 pazienti in arresto cardiaco dei quali 85% deceduti, un paziente ha visto dall’alto e riconosciuto chi lo aveva rianimato e la voce del defibrillatore automatico che diceva “shock the patient”. In questo racconto c’è un dato temporale importante. Il protocollo infatti prevedeva 2 minuti di rianimazione cardiopolmonare seguito dall’analisi del tracciato ECG del defibrillatore automatico (che richiede 1 minuto) prima di dare l’indicazione alla defibrillazione. Quindi il paziente ha avuto almeno 3 minuti di persistenza della coscienza in arresto cardiaco, di cui l’ultimo minuto senza rianimazione cardiopolmonare, quindi in assenza completa di circolazione. Poiché è un fatto ben documentato non può essere rifiutato perché apparentemente incompatibile con quanto oggi conosciuto di fisiologia cerebrale. Il problema è rigorosamente scientifico, non parapsicologico né metafisico o religioso.
La fenomenologia delle NDE ripropone dunque in maniera forte e concreta la dimensione della fine della vita fisica, il problema della definizione e della fisiopatologia della coscienza e la relazione mente-cervello, ossia il problema difficile. Infatti la capacità di mantenere la propria identità e la coscienza mentre si è in arresto di circolo sembra paradossale e suggerisce che la natura della coscienza e alcune sue proprietà siano ancora sfuggenti e richiedano di essere interpretate correttamente, fatto che potrebbe richiedere un ampliamento del paradigma. La mia critica al riduzionismo scientifico non riguarda affatto la validità del metodo in sé ma solo la pretesa della sua esclusività, che riduce la realtà solo a quanto sia con esso compatibile trasformandosi da valido metodo a una sorta di teologia del paradigma.
Se la quantificazione dei fenomeni che la scienza consente con il suo approccio matematico è utile, non tutto può o deve essere quantificato: come afferma Cameron
Not everything that counts can be counted, and not everything that can be counted counts
(un gioco di parole non fedelmente traducibile, ma il cui significato è “Non tutto ciò che è quantificabile conta e non tutto ciò che conta è quantificabile”). In accordo con Heidegger, il pensiero calcolante che domina l’Occidente moderno è il pensiero che mira a controllare e manipolare la dimensione “ontica” del mondo nella negazione dell’essere; quindi discrimina e separa il soggetto e l’oggetto e quest’ultimo nelle sue parti, dove il suo valore, esseri viventi compresi, dipende solo dalla sua utilità e sfruttamento. Se è così, il tempo è maturo per procedere oltre i limiti della visione che ha dominato il XX secolo.