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In primo piano giugno 2024

“L’esperienza religiosa in Occidente e in Oriente. Una riflessione comparativa” di Giovanni Filoramo

L’idea di ‘esperienza religiosa’ ha goduto negli studi religionistici di una fortuna alterna, legata in parte al mutare delle mode interpretative in parte al modo diverso in cui questi studi si sono confrontati (e a loro volta sono stati influenzati) con le differenti tradizioni religiose.
MSA esperienza religiosa Filoramo
a detail of Light Circle (1922), Wassily Kandinsky (Russian, 1866 - 1944)

L’idea di ‘esperienza religiosa’ ha goduto negli studi religionistici di una fortuna alterna, legata in parte al mutare delle mode interpretative in parte al modo diverso in cui questi studi si sono confrontati (e a loro volta sono stati influenzati) con le differenti tradizioni religiose. Anche se, inevitabilmente, il suo significato e la sua storia sono collegati alle fortune e alle interpretazioni, a cominciare da quella in chiave psicologica, del concetto di esperienza, a risultare determinante nella costruzione dei suoi possibili significati è stato l’intreccio, che ben presto si è stabilito, tra questo concetto e i vari usi ideologici che ne sono stati fatti nell’ambito degli studi di scienze delle religioni.

Anche se l’utilizzo del lat. experientia in contesti cristiani è antico, ha una lunga fortuna in ambito monastico, da Cassiano a Bernardo, e riveste, in pensatori come Tommaso, un ruolo significativo; e anche se, in ambito protestante, favorito da fenomeni come il pietismo, il suo uso risale almeno al XVII secolo, esso diventa un termine corrente verso la fine dell’Ottocento, in particolare negli studi religionistici in lingua inglese, che lo riprendono da una tradizione protestante che vi faceva ricorso per indicare soprattutto la centralità dell’esperienza di conversione tipica dei “risvegli”. Diventato un termine tecnico, esso è stato usato dagli studiosi in sostanza secondo tre significati principali: 1) per riferirsi all’aspetto soggettivo di una specifica tradizione religiosa o della religione in generale; e questo, a cominciare dalla tradizione ebraico-cristiana, ad indicare le esperienze fondamentali di alcuni grandi personaggi, da Mosè ad Abramo, da Gesù a Paolo, nel loro incontro con Dio. A partire, poi, da questi casi specifici, il termine è stato esteso in prospettiva comparata a designare forme di incontro trasformanti col divino presenti anche in altre tradizioni religiose anche non teistiche. In questa prima accezione, l’espressione si è trovata spesso in concorrenza (e pericolosamente confusa) con termini analoghi come pietà, devozione, spiritualità e soprattutto misticismo. 2) Questa estensione comparativa ha facilitato un secondo uso dell’espressione, ad indicare un elemento essenziale e permanente della religione, una sorta di nocciolo duro o essenza che si ritroverebbe alla base delle più diverse tradizioni: questo uso sta, ad esempio, alla base della cosiddetta ‘filosofia perenne’. 3) Infine, si è fatto ricorso a questo termine per definire la fonte stessa della conoscenza religiosa, come ne Il Sacro di Rudolph Otto.

Si tratta di usi che si accompagnano a preoccupazioni fondamentali della modernità e dei processi secolarizzanti che la caratterizzano. Nel primo caso, in cui l’enfasi cade sull’esperienza soggettiva del singolo, è evidente il collegamento con l’imporsi del moderno individualismo religioso. Nel secondo caso, dove l’accento cade sul problema dell’universalità della religione, a spingere in questa direzione è stato soprattutto il crescente pluralismo religioso favorito dalla globalizzazione. Infine, nel terzo caso, dove prevale la dimensione cognitiva e l’aspetto epistemologico, a favorire questo uso è intervenuta la questione della pretesa di verità della religione rivelata messa a dura prova dal razionalismo critico.

Venendo ora al caso che ci interessa in questa sede, il concetto di esperienza è servito ad alcuni studiosi occidentali e orientali per gettare un ponte tra i due mondi. Per non portare che un esempio significativo del primo caso, mi limiterò a citare l’opera comparativa tra esperienze religiose occidentali e orientali portata avanti nella prima metà del Novecento da Friedrich Heiler (1892-1967), a cominciare dal suo fondamentale lavoro sulla preghiera (Das Gebet. Eine religionsgeschichtliche und religionspsychologische Untersuchung, München, Reinhardt, 1918; tr. it. Brescia, Morcelliana, 2016). L’esperienza religiosa tra oriente e occidente, come interpretata dal giovane Heiler alla luce del rito fondamentale della preghiera, è interessante per più aspetti. Heiler individua nella preghiera un’esperienza, se non l’esperienza religiosa fondamentale. Come credente (convertitosi subito dopo la Grande Guerra dal cattolicesimo al luteranesimo) e teologo, egli deve fare i conti con il dato rivelato e le sue pretese di verità e assolutezza. Di qui il tipico ricorso alla teologia naturale e a una tipizzazione dell’esperienza di preghiera che si fonda sulla differente concezione di Dio nel caso del cristianesimo e dell’induismo e del buddhismo (Heiler ha scritto anche un lavoro significativo sulla meditazione buddhista). Di qui anche una certa interpretazione della mistica, che ora non è possibile approfondire, ma che è pur sempre rivelativa del ruolo centrale che mistica e misticismo hanno avuto nella perimetrazione di un concetto sfuggente come quello dell’esperienza religiosa. Di qui, infine, grazie anche a una conoscenza di prima mano delle fonti orientali, un confronto tra esperienza religiosa orientale (induismo e buddhismo) e occidentale, che getta un ponte tra i due modi abissalmente diversi, e nel contempo comuni, di vivere l’esperienza religiosa.

In effetti, il concetto di esperienza religiosa ha recitato un ruolo significativo nella mediazione dell’induismo e del buddhismo zen in occidente nel corso del Novecento. Ciò che emerge sempre più chiaramente da una riflessione storiografica che è stata favorita in questi ultimi decenni dall’onda decostruzionista e che ha portato a comprendere meglio l’origine e l’uso ideologico di certe categorie chiave come appunto “esperienza religiosa” in sede di analisi comparativa, è che l’importanza di questa categoria non ha tanto una base testuale in fonti orientali antiche induiste e buddhiste, ma si deve in sostanza all’opera di mediazione messa in atto da alcuni intellettuali orientali, indiani e giapponesi, sensibili ai processi di modernizzazione e all’influsso della cultura e delle scienze religiose occidentali, che vi hanno fatto ricorso per rileggere le proprie tradizioni religiose alla luce del confronto con l’occidente, sullo sfondo dei processi coloniali e dei problemi da essi indotti come, ad esempio, un incipiente nazionalismo.

Per quanto riguarda l’induismo basterà ricordare l’opera di mediazione di uno dei suoi più celebri intellettuali, Sarvepalli Radhakrishnan (1888–1975), che, sulle orme di alcuni predecessori legati ai movimenti di riforma dell’induismo come Rammohun Roy (1772–1833), Debendranath Tagore (1817–1905) e Vivekananda (1863–1902), abbracciò il concetto di esperienza religiosa in quanto centrale alla sua comprensione della religione in generale e dell’induismo in particolare. La sua concezione dell’esperienza religiosa si iscrive in una tipica filosofia perenne, che mescola una visione del Vedanta propria del neo-induismo con l’idealismo filosofico occidentale. In una conferenza sull’ esperienza religiosa tenuta nel 1926 (poi confluita nel suo lavoro più significativo per il nostro discorso, The Hindu View of Life del 1927), egli sottolinea la particolare capacità dell’induismo, nella sua storia millenaria, di tenere insieme elementi e tradizioni religiosi eterogenei, permettendo loro di convivere in pace. La capacità dell’induismo di scoprire e favorire l’unità in mezzo alla diversità si fonda sulla sua peculiare esperienza religiosa: nell’induismo “intellect is subordinated to intuition, dogma to experience, and outer expression to inward realization. Religion is not the acceptance of academic abstractions or the celebration of ceremonies, but a kind of life or experience. It is insight into the nature of reality (darsana), or experience of reality (anubhava)”. L’esperienza religiosa è un’esperienza totale, “a type of experience which is not clearly differentiated into a subject-object state, an integral, undivided consciousness in which not merely this or that side of man’s nature but his whole being seems to find itself”. Questa esperienza religiosa è equiparata a una forma di conoscenza intuitiva. Per spiegare come l’Assoluto possa essere sperimentato direttamente, egli fa ricorso all’inconscio: l’immediatezza di quest’esperienza non significa assenza di mediazione psicologica ma assenza di mediazione conscia. Idee che sembrano giungere a noi con forza stringente, senza un processo intellettuale conscio di mediazione, sono in genere il risultato di un’educazione in una determinata tradizione in cui ci siamo formati da giovani. Qualcosa può essere direttamente sperimentato, ma è interpretato inconsciamente nei termini della tradizione in cui il singolo si è formato. L’esperienza religiosa non è, dunque, esperienza pura, ma sempre un’esperienza culturalmente mediata.

Una funzione analoga di mediazione, per quanto concerne il Giappone, svolse, più o meno nello stesso periodo, Daisetz Teitaro (D. T.) Suzuki (1870–1966). Il suo interesse per il tema dell’esperienza sembra collegato alla pubblicazione nel 1911 del saggio del suo amico Nishida Kitarō’s (1870-1945) Zen no kenkyū (Una ricerca sul bene): un’opera influenzata da William James, che Kitarō aveva conosciuto attraverso Suzuki. Quest’opera rappresenta un ripensamento della filosofia giapponese alla luce del concetto di ‘esperienza pura’, una nozione derivata direttamente dall’opera del filosofo americano. Mentre, però, James vi aveva fatto ricorso allo scopo di superare l’ontologia della sostanza che, a suo avviso, continuava a macchiare l’empirismo classico, proponendo a questo scopo una visione pragmatica dell’esperienza che mirava ad evitare la reificazione del soggetto o dell’oggetto, Kitarō, di contro, come poi il suo amico Suzuki, la riprende per integrare la sua rilettura della tradizione filosofica occidentale con la sua visione dello Zen. Nella sua interpretazione, la nozione di esperienza pura sembra funzionare come un fondamento ontologico che mira ad identificare soggetto ed oggetto, sulla base di uno stato psicologico di autoconsapevolezza radicale. Anche Suzuki, a partire dagli anni ’20, la riprende, facendone il cuore della sua interpretazione del satori. Secondo questa rilettura, la dottrina dell’illuminazione è un’esperienza interiore in cui l’illuminazione è colta immediatamente senza mediazione concettuale. Forte di questa interpretazione, egli sottolinea la centralità dello Zen nella tradizione buddhista e critica coloro che cercano di cogliere lo spirito del buddhismo attraverso lo studio delle dottrine buddhiste piuttosto che penetrare nell’essenza interiore dell’illuminazione come sperimentata dallo stesso Buddha. In questo modo, l’illuminazione diventa per Suzuki la categoria interpretativa principale. A partire da questo centro, egli sottolinea poi, in chiave comparativa, la differenza tra l’esperienza Zen e la meditazione praticata in India o forme analoghe della tradizione cristiana; se il satori è “la fontana del pensiero e della vita buddhiste”, esso è anche presente in forme analoghe nel cristianesimo, nell’islam, nel taoismo e in altre tradizioni religiose. Il satori, in questo modo, diventa non solo il cuore dell’esperienza Zen ma anche di altre religioni: più che una religione, esso è la quintessenza dell’esperienza religiosa, che trascende forme istituzionali e concrezioni rituali. Storicamente, esso è collegato con monasteri, forme di culto e opere letterarie e artistiche; ma si tratta di connessioni superficiali, che rimandano a un’esperienza interiore immediata dell’Assoluto, in cui il dualismo di soggetto e oggetto è trasceso. In conclusione, lo Zen presentato da Suzuki non è una realtà storica, ma una pratica rimasta immutata per secoli: lungi dal poter essere compreso tramite mezzi intellettuali, esso può essere soltanto esperito.

Conclusioni
Come era successo poco prima ai modernisti cattolici, anche questi due ‘modernisti’ dell’India e del Giappone fecero ricorso all’idea di esperienza religiosa per privilegiare l’esperienza individuale e minare, così, alla base le fonti dell’autorità religiosa tradizionale. La retorica dell’esperienza religiosa che essi costruiscono, infatti, non ha vere radici nelle religioni di appartenenza, ma è, piuttosto, frutto dell’incontro e confronto con l’occidente colonialista e la sua interpretazione della religione. In questo modo, essi non solo affermano il fondamento esperienziale delle proprie tradizioni religiose, ma, attraverso il confronto, le presentano come più intuitive e mistiche e, in questo modo, più ‘pure’ delle fedi discorsive e pratiche dell’occidente. Si viene così costruendo una dicotomia destinata a durare fino ad anni recenti. Se l’occidente capitalistico eccelle materialmente, l’oriente eccelle spiritualmente. In questo modo, nel challenge tra oriente e occidente, si finisce per capovolgere il giudizio di valore dato da Heiler, che vedeva nel cristianesimo (luterano) il culmine dell’evoluzione religiosa.

In conclusione, sullo sfondo dei processi coloniali e del confronto tra cultura occidentale e orientale, che vedeva la seconda, nell’ottica della prima, cadere vittima del pregiudizio orientalistico, intellettuali come Radhakrishnan e Suzuki usarono le loro conoscenze delle tradizioni filosofiche e religiose occidentali in chiave apologetica, fabbricando una retorica dell’esperienza religiosa tanto scarsamente fondata sulle fonti quanto efficacemente costruita per convincere gli interlocutori occidentali. Secondo questa retorica, le tradizioni religiose orientali a cui essi appartenevano erano fondate su di una esperienza più pura, intuitiva, mistica, originaria di quella caratteristica delle tradizioni religiose discorsive, più dogmatiche e ritualistiche, tipiche a loro avviso dell’occidente. Questa politica di rivitalizzazione religiosa doveva, a sua volta, contribuire a favorire anche in occidente una valorizzazione dell’esperienza religiosa.

L’idea di esperienza religiosa, di cui abbiamo cercato di ricostruire alcuni momenti formativi, da tempo, sotto gli strali di molteplici critiche ai suoi presupposti ideologici e ai suoi limiti metodologici, ha perso la sua centralità negli studi religionistici. Oggi, in fondo, è l’impossibilità stessa di vivere esperienze ‘autentiche’ che rende problematico il ricorso a quest’idea anche nel campo degli studi dei fenomeni religiosi. Si pensi, per non portare che un esempio, al fenomeno sempre più esteso della religione in Rete e della spiritualità digitale. Quando oggi l’internauta si immerge nella realtà liquida del suo schermo alla ricerca di un qualche assoluto, che tipo di esperienza religiosa vive? Ma questo è un altro discorso, che lascio volentieri a qualcuno/a più esperto di me.

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