di Carlo Carnevale
Il campo delle neuroscienze affettive ha di recente assistito a un energico dibattito tra due diversi approcci alla comprensione delle emozioni. Il primo: le teorie delle emozioni di base (Basic Emotion Theories), a cui ci si riferisce anche con i vari nomi attribuiti ai meccanismi sottesi a esse (circuiti delle emozioni, marcatore somatico, e così via) o sulla loro supposta natura (si parla allora di “nativisti” o “essenzialisti”); a volte, viene anche semplicemente considerata come “la visione classica”. Il secondo approccio oggi (si veda il rinnovato interesse in Vygotskij) è rappresentato dalle teorie costruttiviste; la più influente fra le quali è forse la teoria dell’emozione costruita di Lisa Feldman Barrett. Esistono poi approcci come la higher order theory of emotional consciousness di Ledoux e Brown, che si situano in qualche modo a metà strada fra queste due concezioni.
Le teorie delle emozioni di base affermano che esistono svariati complessi emotivi innati nell’esperienza umana. Questi complessi fanno capo a una continuità evolutiva con le altre specie, nelle quali sono in larga parte omologhi. Quanti e quali siano varia da un autore all’altro: Silvan Tomkins ne propone otto (surprise–startle; interest–excitement; fear–terror; distress–anguish; enjoyment–joy; contempt–disgust; shame–humiliation; anger–rage), Paul Ekman ne ha proposti sei (happiness, sadness, fear, surprise, anger, disgust), Jaak Panksepp sette (fear, lust, care, play, rage, seeking, and panic/grief), mentre altri autori come Antonio Damasio, operano altre distinzioni più sottili.
Comunque vengano identificate, le emozioni sarebbero irriducibili e parte costitutiva della nostra eredità biologica. Risultano inoltre essere riconoscibili universalmente (o quasi) in fenomeni manifesti come (per i primati) le espressioni facciali, anche se questi fenomeni possono, negli umani, essere complicati dalla dimensione culturale. Nella sua forma più accreditata, la posizione classica vede le emozioni come primitive e primordiali e queste condividono finalità trasversali a quelle della “ragione” con cui cooperano. Il dualismo emozione-ragione non fa parte della teoria delle emozioni di base, anche se questa associazione può essere riscontrata; ancora una volta, dipende dall’autore di riferimento.
Di contro, le teorie costruttiviste, propongono un’interazione complessa tra fattori neurologici, psicologici e sociali il cui grado di sollecitazione o stimolo affettivo (affective arousal), caratterizzato da una valenza, positiva o negativa, assume forme specifiche che chiamiamo “emozioni”.
Queste partecipano dei tentativi del cervello di processare predittivamente l’esperienza. Il cervello, in questa prospettiva, è più una macchina predittiva che reattiva, una macchina che costruisce (o “simula”) la nostra esperienza, di momento in momento, basandosi in parte sulle sue esperienze precedenti che compara continuamente con le informazioni sensoriali che riceve.
Le emozioni sono in questo senso costruite in modi specificamente umani e sarebbe difficile, o quantomeno ambiguo, identificare cosa sia biologicamente comune tra gli umani e le altre specie, oltre alle forme di eccitamento (arousal) e valenza che sono nel centro di queste interazioni complesse.
Naturalmente, la cultura gioca qui un ruolo molto potente nel dare forma a ciò che pensiamo come vita emotiva.
Mentre le BET sono spesso criticate per il loro essenzialismo (i.e., il supposto primato dell’universale sul particolare), le prospettive costruttiviste sono considerate a loro volta relativiste e sembrano porsi in contrasto con decenni di ricerca che mostra ostensibilmente l’universalità di certe espressioni dell’emozione umana. Come spiega Lisa Feldman Barrett in How Emotions are Made, il costruttivismo emotivo combina elementi del costruttivismo sociale, psicologico e del neurocostruttivismo. È un pensiero dichiaratamente anti-essenzialista. Laddove le BET trovano un punto di partenza nel comportamento osservato e sono solidamente radicate in un nutrito filone di ricerca classica cross-specie; le teorie costruttiviste partono dal dato neurofisiologico e da come questo fallisca nel confermare gli assunti dei teorici delle emozioni di base; se non modellando l’oggetto della ricerca su preconcetti classici, riflettendo e consolidando poi questi preconcetti in risultati sperimentali artefatti.
In How Emotions Are Made, Barrett sostiene che queste due visioni sono state in conflitto “throughout recorded history”, dalla Grecia antica (Platone contro Eraclito) e dal Buddhismo classico (dharma come essenze contro dharma come costrutti concettuali) fino alla modernità (Cartesio e Spinoza contro Hume e Kant) e oltre.
Sembra che lo stesso Darwin fosse confuso su questo tema: Barrett descrive Sull’origine delle specie (1859) come la matrice di una biologia radicalmente anti-essenzialista; più tardi però ne L’espressione delle emozioni nell’uomo e negli animali (1872) questa posizione viene ritrattata e si capovolge in favore di un “inesplicabile essenzialismo” (Barrett, 2017).
William James, nei suoi Principles of Psychology (tra i vari titoli pertinenti), assume una posizione marcatamente anti-essenzialista, ma John Dewey, nella sua lettura, lo trasfigura, battezzando la propria visione (per altro oggi screditata) la teoria James-Lange delle emozioni, contaminando quindi profondamente la percezione delle opinioni di James. Così di seguito. Ora, scrive Barrett: “Le neuroscienze moderne ci hanno fornito gli strumenti per saldare i conti, e sulla base di prove schiaccianti, la posizione classica ha perso.” (Barrett, 2017). Ma è veramente questo il caso?
Fonti & Approfondimenti:
F. Caruana, 2017, What is missing in the “basic emotion vs. constructionist” debate?
L. F. Barrett, 2017, “How Emotions Are Made”.
J. Ledoux, 2012, “Rethinking the emotional brain”, Neuron.
E. Jurist, 2019, “Review of How Emotions Are Made”, Researchgate.
S. Asma and R. Gabriel, United by Feelings, Aeon.