Le apparenze nascondono ai nostri occhi la realtà? Oppure la nostra idea preconcetta di ciò che è reale ci impedisce di vedere la realtà dell’apparenza?
L’idea del titolo non è solo per provocare ma per volgere l’attenzione verso due punti. Il primo è mostrare l’importanza della fenomenologia che ha come scopo studiare l’apparire, per evidenziare il modo in cui da esso si genera la nostra credenza nella realtà degli oggetti esterni. Il punto di vista fenomenologico si è dimostrato molto potente nell’aiutarci a comprendere i nuovi sviluppi della filosofia della fisica, in particolare della filosofia della fisica quantistica.
La seconda ragione per cui ho scelto questo titolo è perché mi sembra che il senso in cui la metafisica e la scienza occidentale hanno visto la differenza tra realtà e apparenza è esattamente opposta a quella buddhista. La scienza e la metafisica occidentale provano ad andare oltre le apparenze verso una realtà nascosta che per esempio la metafisica chiamerebbe trascendenza e che la scienza chiamerebbe il meccanismo che spiega le apparenze. Invece in alcune scuole del Buddhismo avviene il contrario perché quello che vogliamo vedere bene è l’apparire, e quello che ci nasconde l’apparire è la nostra imputazione concettuale, il nostro intelletto che crede (erroneamente) di poter scoprire una realtà più profonda dell’apparire.
Consideriamo ad esempio il tema dell’impermanenza, così importante nel Buddhismo. Quello che c’è, la realtà che noi vediamo in questo momento, è l’impermanenza stessa, il flusso di quello che esperiamo. Al contempo però vogliamo afferrare un io che pensiamo permanente e vogliamo afferrare anche, con la percezione, l’identità delle cose: l’identità del tavolo, del computer ecc. L’oggetto è fermo, è permanente e dunque per noi esiste in modo reale ma quando lasciamo perdere questo afferrarci, vediamo l’apparire così com’è: fluente, libero, aperto e per me è questa la vera svolta che pone il Buddhismo.
La svolta della metafisica e della scienza occidentale è a rovescio: si deve andare oltre, “fare un buco” nell’apparenza per vedere la realtà, come ci ricorda il famoso quadro del monaco che guardava attraverso l’apparenza della volta celeste e guardando oltre vedeva i meccanismi che stavano dietro. È così che la metafisica e la scienza occidentale capiscono fondamentalmente la conoscenza: come tensione verso il permanente che sta al di là di ciò che scorre, come svelamento dell’immobile.
Allora può essere interessante indebolire lo schema della metafisica e della scienza occidentale. Esaminiamo a tal fine alcune opposizioni classiche. Per esempio tutti dicono che la realtà è oggettiva e che esistono sfere soggettive di sentimenti, impressioni e giudizi. E dicono anche che questo dominio soggettivo è limitato, ristretto, mentre la realtà oggettiva è più profonda, più ampia e capace di abbracciare i soggetti. Questa è la nostra credenza fondamentale: l’occidente è basato su questo.
Ma guardando più da vicino, domando: ciò che è oggettivo è veramente identico al reale? Kant propose una nuova definizione dell’oggettività come intersoggetività universale, qualcosa su cui tutti i soggetti (razionali) esistenti o possibili possono essere d’accordo a proposito dei fenomeni. Al contrario, ciò che Kant chiama reale non è l’aspetto intersoggettivamente valido che può essere estratto dai fenomeni; piuttosto, egli pensa che ciò che è reale vada oltre il fenomeno e lo chiama “la cosa in sé”. La sua idea di definire l’oggettività in modo diverso dalla realtà è cruciale per noi, perché significa che la realtà non si trova solo nell’oggettività, ma forse altrove, forse anche nella soggettività, forse nel “né soggettivo né oggettivo” dell’esperienza pura. Schopenhauer, il successore di Kant, disse che quanto Kant chiama “la cosa in sé” è ciò che dovremmo chiamare “la volontà”, l’impulso ad agire, l’oscuro impulso che non posso sapere da dove viene ma che sorge dal più intimo di me e mi spinge ad agire. Questo per Schopenhauer era la realtà. Ma in questo caso la realtà, secondo Schopenhauer, non è affatto esterna, è qualcosa che ci spinge dalla parte sconosciuta della nostra interiorità, per cui l’identificazione tra realtà e oggettività non solo non è affatto ovvia, ma rappresenta addirittura un fraintendimento.
Husserl, il padre della fenomenologia, usava due parole tedesche per dire realtà: real e reell. Real suona come la parola italiana “reale”; e reell è una parola quasi identica ma per Husserl il suo senso era completamente diverso. Real vuol dire secondo Husserl essere “simile alle cose”, simile al tavolo, al computer eccetera: è il modo d’essere della Res latina. Invece reell parla di quello che è “indubbiamente qui”, “assolutamente qui”; e per lui questo assoluto indubitabile è l’apparenza, o piuttosto l’apparire; è l’esperienza pura, vissuta. In effetti, è sempre possibile dubitare del fatto che siamo poggiati su un tavolo: potrebbe essere un ologramma, un sogno o addirittura un’allucinazione. Invece il fatto che adesso siamo lucidi e coscienti, anche se qualcosa ci turba, anche se anche siamo pieni di illusioni, c’è ancora. “Ah c’è qualcosa, appare qualcosa (forse appare il dubbio, forse appare l’allucinazione, ma appare)”. Dunque reell è più solido di real per Husserl. “L’indubbiamente qui” è più irremovibile della cosa (res). Husserl insisteva anche che il reell è il dominio dell’essere assoluto, invece il real è il dominio dell’essere relativo. I buddhisti direbbero forse che il real è la verità convenzionale, e il reell la verità ultima.
Passo ora al pensiero di George Berkeley, considerato un pensatore immaterialista perché non credeva all’esistenza intrinseca della materia ma almeno credeva all’esistenza dell’apparire che chiamava solo “l’idea delle cose”. Per lui, la causa dell’apparenza poteva essere solo Dio (non dimentichiamo che era un vescovo!), e non pensava che potesse essere costituita da oggetti esterni.
Mi piace anche notare la strana inversione di vocabolario che si è verificata nel Seicento, perché ci aiuta davvero a capire il nostro banale concetto di realtà. Per i filosofi medioevali quello che chiamavano il soggetto era la sostanza alla base dell’apparenza, cioè la sostanza che causa l’apparenza in noi. Noi la chiameremmo oggetto, oppure cosa, ma loro la chiamavano soggetto (subjectum). Invece per loro l’oggetto, come lo suggerisce l’etimologia della parola latina ob-jectum, è quello che noi buttiamo davanti, si potrebbe quasi dire che è una proiezione della mente (pressoché come una cosa fittizia). Noi però adesso pensiamo che l’oggetto sia la cosa reale. Quindi vedete che qualcosa è successo tra il Medioevo e noi, ma che quello è iniziato poco dopo il Rinascimento. Mi viene da pensare soprattutto a Cartesio che si è interrogato su che cosa è ovvio. E lui ha detto che l’ovvio è che io sia, e quindi ha detto che la cosa più reale di tutte è l’ego che sente, percepisce, e pensa. La sostanza, il soggetto nel senso medievale, per Cartesio era diventato l’ego cogito. Per lui l’ego cogito era più reale di tutto il resto, per questo l’ha chiamato soggetto; e invece l’oggetto è diventato per lui la res extensa, la cosa esterna capace di essere percepita … dall’ego. Anche questo schema è molto criticabile ma almeno ci fa capire da dove vengono le nostre categorie: da una storia recente, da un’improvvisa svolta del pensiero. Oggi ci capita di dire con scioltezza: c’è il soggetto e c’è l’oggetto ma possiamo dirlo solo perché siamo gli eredi di un grande movimento, di un capovolgimento della filosofia occidentale.
Facendo ora un altro passo indietro, arrivando fino a Platone, è interessante trattare un problema tipico della filosofia medioevale: la controversia tra realismo e nominalismo. Nel Medioevo il realismo non aveva lo stesso significato di oggi, e non voleva dire credere nella realtà sostanziale delle cose materiali. Significava piuttosto che le persone chiamate realiste credevano nella realtà della generalità, del concetto, dell’Idea come diceva Platone. Per Platone tutto questo che ci circonda, tutte le cose che ci appaiono, era un esemplare di qualcosa di più reale e più fondamentale: l’idea. Per esempio l’idea di tavolo o l’idea di computer è più reale dell’individuo computer e dell’individuo tavolo secondo Platone. Sembra strano tutto ciò eppure noi siamo anche gli eredi di questo.
La cosa più importante da capire è che per Platone l’esemplare più importante di questa realtà alta era la forma matematica. Per lui la forma matematica era un tipo superiore di realtà e le cose sensate sono solo copie di queste realtà assolute matematiche. Per esempio nel Timeo genera un mondo a partire dalle forme matematiche, le forme geometriche.
Aristotele ammetteva uno statuto ontologico molto più alto all’individuo rispetto alla generalità; ma diceva sempre che la scienza riguarda solo le generalità, il sapere vero porta soltanto sui concetti e gli individui scappano alla scienza.
Ora, se studiamo almeno un aspetto dell’epistemologia buddhista, quella insegnata da Dignaga e Dharmakirti, salta agli occhi una tesi totalmente antiplatonica. Siamo colpiti dall’importanza che questi autori danno ai momenti singolari di esperienza, ai fenomeni, agli individui (molto limitati), a questo flash di esperienza immediata che chiamano “svalaksana” cioè segno di sé stesso. Per loro queste sono le vere realtà e invece per vedere queste vere realtà, che in certe discipline di meditazione theravada si sta attenti a cogliere, bisogna rinunciare alle generalità prefabbricate e alle sovrapposizioni concettuali che sono chiamate “samanyalaksana”.
Nella terminologia della filosofia medievale questa filosofia buddhista non si dovrebbe chiamare realista, anche se in un certo modo è realista a proposito dell’individuo, dell’immediata realtà del momento di esperienza o di apparire. Invece nella terminologia del Medioevo si dovrebbe dire che l’epistemologia buddhista di Dharmakirti è un caso di nominalismo non di realismo. Questa dottrina buddhista si deve chiamare nominalista perché, quando per esempio si dice il cavallo in generale o il tavolo in generale, il nominalismo dice è solo un nome; non c’è nessuna realtà al di sotto di esso, niente, la generalità (l’universale) è soltanto un nome. Per i nominalisti, la sola vera realtà è l’individuo. Ma il nominalismo buddhista è molto speciale, molto più potente e radicale perché non dice soltanto che l’individuo tavolo o l’individuo cavallo è reale, dice che quello che è reale è soltanto l’individuo di apparire istantaneo. E anche questo tavolo e questo cavallo sono generalità costruite, fatte di frammenti di apparizioni istantanee. Ma almeno si ammette ancora la realtà di qualcosa in questa filosofia, la realtà dell’istante, del momento di apparire. Nella dottrina Madhyamaka più avanzata, tuttavia, c’è il pratityasamutpada che dissolve anche questa ontologia minima: non c’è nessun essere proprio, nemmeno un essere proprio singolare, neppure l’essere proprio di un flash di apparire. Ma poi forse, come diceva Thich Nhat Hanh, ci sarebbe un interessere.
Torniamo quindi alla questione della distinzione tra realtà e apparenza e al modo in cui la metafisica occidentale, ereditata da Platone, la concepisce. Che cos’è reale? Se osservo un quadro dove è dipinto un vaso di frutta, secondo Platone, quello è un’imitazione della natura (la frutta). Ma la natura, secondo Platone, è un’imitazione di qualcosa di più reale che è l’idea o le idee (le leggi matematiche). Nella scienza contemporanea è la stessa cosa: vediamo un albero, c’è un’apparenza di verde brillante, di cielo e poi c’è la realtà di quell’albero che è molto diversa. Se si guarda sempre più a fondo, dietro il velo delle apparenze si trova la molecola di clorofilla e poi lo schema del gruppo delle particelle elementari e questo (diciamo) è più reale dell’apparenza dell’albero. Noi siamo ancora condizionati da questa dualità; siamo eredi di Platone.
Per esempio pensiamo ai due tavoli celebri di Eddington, nel suo libro The Nature of the Physical World (1928). Ci sono due tavoli molto diversi secondo lui. C’è il tavolo che sembra solido, continuo: è il tavolo della percezione ordinaria. Ma c’è anche l’altro tavolo, quello della scienza, quello della fisica del 1928 secondo cui il tavolo è fatto di atomi legati da vincoli chimici, ma anche da una quantità straordinaria di vuoto tra le particelle, tra il nucleo e gli elettroni, tra gli atomi e così via. Molto vuoto e pochissima materia. Secondo Eddington, uno scienziato deve pensare che quel secondo tavolo è il tavolo reale, mentre quello che vediamo qui nella stanza coi nostri occhi è il tavolo apparente. Questo esemplifica la differenza tra apparenza e realtà, secondo questa metafisica che abbiamo ereditato da Platone.
Tutto questo sembra sorgere da un malinteso secolare, e per spiegarmi devo tornare ancora indietro e risalire a Eraclito: c’è una sua celebre frase che per lungo tempo tutti hanno tradotto come “la natura ama nascondersi” (Physis Kriptesthai Philei), facendo diffondere l’idea che ci sia qualcosa di nascosto che bisogna scoprire. Questa traduzione è di Filone di Alessandria, discepolo del platonismo. Secondo lui il senso di questa frase sta a dire che il velo delle apparenze sensoriali nasconde la realtà intellegibile della natura ideale, e che dunque noi dobbiamo fare indagini per trovare il segreto di questa realtà criptica. Ci sono poi state altre interpretazioni vicine: Galileo diceva che la natura è un libro misterioso scritto in simboli matematici dietro il manto dell’apparenza, e che spetta a noi comprendere questa realtà simbolica e svelarne il significato.
Pochi anni fa Pierre Hadot è tornato su questa celebre frase di Eraclito (Physis Kriptesthai Philei) studiando il greco del quinto secolo prima di Cristo che non era lo stesso greco di Filone di Alessandria (primo secolo); e ha trovato che se traduceva la frase secondo il greco di Omero trovava questo: “Ciò che nasce tende a morire”, completamente diversa! Physis non è più la natura ma ciò che nasce, Philei non è più amare, ma è tendere verso, e Kriptesthai non è più nascondersi, ma è sparire nel senso di morire. Quindi la frase di Eraclito non dice più che la natura è nascosta; dice che è pura impermanenza e che non c’è nient’altro da cercare al di là dell’impermanenza: nessuna sostanza stabile, permanente.
E più avanti i romantici l’avevano bene capita questa verità eraclitea: “la natura dona tutto generosamente; non ha nucleo né velo”. “è inutile guardare oltre i fenomeni: i fenomeni sono la loro stessa teoria”, scriveva Goethe.
Anche nella scienza contemporanea, guardandola da vicino, si vede che gli scienziati non fanno altro che collegare fenomeni ad altri fenomeni colle leggi matematiche dei fenomeni; e questo era chiaro a Newton, e ancor di più a Kant. Newton diceva “Io non so e non voglio subito sapere che cos’è la natura della gravitazione, io do soltanto una legge matematica che fa connessione tra fenomeni”. Dôgen, grande autore buddhista, non diceva altro, anche se non aveva la possibilità di collegare matematicamente i fenomeni: “tutto questo universo non ha nulla di nascosto oltre il fenomeno”. Tutto qui, tutto presente, tutto ovvio; quindi la realtà dietro il velo dell’apparenza è un sogno vuoto.
Nietzsche, poi, ha fatto una diagnosi del perché noi occidentali abbiamo bisogno di pensare che c’è una cosa solida, ferma, racchiusa in qualche parte dietro il velo dell’apparenza. È una diagnosi che parrebbe buddhista nel suo principio. Nietzsche dice: “il divenire eterno è terrificante -quindi l’impermanenza è terrificante-, l’impressione che lascia è simile a quella di qualcuno che durante un terremoto vede tutto muoversi intorno a sé, ci vuole un’energia straordinaria per trasformare questo effetto nel suo opposto, in un’impressione di sublimità e di stupore felice”. Sentiamo che Nietzsche ci domanda di imparare a vedere il flusso impermanente dell’apparire come la vera realtà, senza spaventarci, anzi vedendone la meraviglia.
Ci sono anche dati della scienza contemporanea che mettono in discussione la visione tipica della metafisica occidentale, nonostante il terreno di costruzione di questa scienza non sia altro che la metafisica occidentale. Dunque la scienza occidentale diventa capace di autocritica, e ci sono alcuni esempi di questo. Come il caso della teoria di Francisco Varela: autopoiesi ed enazione. Nella sua definizione di enazione c’è la definizione reciproca del conoscitore e del conosciuto, del soggetto e del mondo; dunque non c’è qualcosa di fermo, di permanente, che si chiama mondo oppure soggetto; tutto è il flusso dell’interagire mutuale. Ma il processo è guardato da fuori: quando faceva scienza, Varela guardava questo processo come se non fosse lui stesso un soggetto conoscitore; ma lo era, e sapeva di esserlo quando faceva filosofia o meditazione. Ma adesso, se tornate al punto di vista del conoscitore che cosa vedete? Il flusso dell’apparire e nient’altro. E non c’è qualcosa di solido che si può chiamare il mondo in sé, neanche un processo oggettivo chiamato “enazione”; perché il mondo co-emerge da questo momento di integrazione che chiamiamo l’apparire.
Un altro caso interessante recente è la teoria di Donald Hoffman. Lui dice: un essere vivente non ha bisogno di sapere nel dettaglio il funzionamento del mondo. Per questo essere è una cosa molto pericolosa sapere troppo sul mondo. La sola di cui ha bisogno è sapere le cose che gli sono utili; per esempio disponibilità di cibo, situazione di pericolo. L’evoluzione elimina gli esseri viventi che ne sanno troppo sui meccanismi nascosti – se ci sono. Ma dunque, anche per Hoffman c’è ancora questo modello: c’è la realtà nascosta e poi ci sono i significati per gli esseri viventi che si possono chiamare le apparenze. C’è questa dualità. Hoffman chiama questa apparenza, questo significato: “l’interfaccia utente” perché fa un paragone tra quello che noi vediamo sullo schermo di un computer e la vera realtà di quello che c’è nel computer che è una miriade di elettroni che volano nei processori.
Dunque c’è la dualità secondo Hoffman: l’interfaccia utente e la realtà interna del computer, oppure c’è la realtà del cervello degli animali che vivono nel mondo e poi l’apparenza di mondo significante che c’è per loro. Hoffman rimane in questa dualità e questo solleva la seguente domanda: che ne è dell’evoluzione biologica e del cervello umano? Fanno parte dell’interfaccia utente o rappresentano la realtà? Dopo tutto, anche quello che chiamiamo cervello è un’apparenza secondo il modello evoluzionista di Hoffman. Il cervello per noi è ancora parte dell’interfaccia utente e dunque, a causa di questo, bisogna rimettere completamente in discussione la dualità del puro apparire dell’interfaccia utente e della realtà interna del computer. Infatti TUTTO è interfaccia utente e ogni cosa che possiamo vedere, anche se apriamo il computer, è sempre un fenomeno, è ancora interfaccia utente, ancora e ancora. Quindi bisogna capire che questo modello di Hoffman, come il modello enattivista di Varela, sono strumenti per farci vedere che non bisogna prendere sul serio le cose che prendiamo come realtà, ma soltanto come modelli; dopo che sono serviti per questo uso li buttiamo via.
Vediamo ora l’applicazione alla meccanica quantistica che è precisamente un caso straordinario in cui la metafisica occidentale ha dimostrato il suo fallimento finale nel suo successo più immenso. Quando si interpreta la meccanica quantistica infatti, molti pensano che essa sia una descrizione matematica della realtà degli elettroni, dei protoni e dei quark. Molti dicono anche che la meccanica quantistica dà questa descrizione della realtà con la matematica, per esempio col suo simbolo psi che si dice rappresenti lo stato delle particelle elementari. Ma quando si fa questo tipo di ipotesi, si incontra un numero incredibile di paradossi che tutti conoscono.
Ci sono due strategie: o si accettano i paradossi immaginando che il mondo è paradossale e che dobbiamo riconoscerlo, oppure – con una strategia filosofica – possiamo pensare che tutti questi paradossi siano dovuti a una lettura inadeguata, ispirata dalla storia della metafisica occidentale, dello statuto dei simboli matematici che ci dà la meccanica quantistica.
Ci sono vari paradossi che si sciolgono subito quando si cambia interpretazione del senso della matematica.
Uno è l’esempio famoso del gatto di Schrödinger che può essere sia vivo che morto, oppure quello forse ancora più noto che pone l’interrogativo se qualcosa possa essere un’onda e una particella allo stesso tempo. Possiamo conciliare i quanti di energia con il principio di Huygens, che è il principio della sovrapposizione delle onde?
Esaminiamo più a fondo la non-località, che si dice essere l’insegnamento ultimo della meccanica quantistica. La meccanica quantistica dice veramente che il mondo è non locale? Quelle che indica la teoria quantistica è molto più triviale, e molto più astratto di questo. La matematica della teoria quantistica include quello che si chiama “entanglement”. Questo vuol dire che non si può separare matematicamente un simbolo che corrisponde allo stato di un oggetto e un altro simbolo che corrisponde allo stato di un altro oggetto. I due simboli sono mescolati matematicamente. Non si può fattorizzare questi simboli in termini algebrici. Ora questo implica veramente la non località? La implica soltanto se noi crediamo che psi è la descrizione matematica di una realtà al di là del fenomeno. Ma se non lo crediamo, se diciamo che psi è un’altra cosa, utile per calcolare le probabilità degli eventi sperimentali, ma non capace di descrivere questa realtà trascendente al di là delle apparenze; se non lo diciamo, allora troviamo una verità molto diversa, che vorrei esprimere attraverso due frasi di autori contemporanei. Una è di Carlo Rovelli: “la meccanica quantistica non viola la località” e l’altra di un gruppo di fisici (Fuchs, Mermin e Schack): “la non località quantistica è un artefatto di interpretazioni inappropriate della meccanica quantistica”.
Ecco: la non-località “paradossale” è sparita all’istante dove abbiamo abbandonato il pregiudizio che la matematica descrive una realtà più profonda dell’apparire. Tutti i paradossi della quantistica spariscono all’istante dove voi abbandonate il pregiudizio della metafisica occidentale.
Pensiamo anche alla equazione di Schrödinger. La vera domanda che dobbiamo porci è: questa equazione descrive la realtà o no? Se diciamo sì, un numero incredibile di conseguenze possono essere inferite, e se diciamo no un altro numero incredibile di conseguenze devono essere estratte.
C’è una frase straordinaria di un filosofo contemporaneo della meccanica quantistica Richard Healey, autore di The Quantum Revolution in Phylosophy, che illustra come la meccanica quantistica non sia soltanto una rivoluzione scientifica, ma è soprattutto una rivoluzione filosofica. Quando non accettate di fare la rivoluzione filosofica trovate problemi che sembrano scientifici; ma se accettate di fare la rivoluzione filosofica i problemi non ci sono più, e la scienza diventa più elegante. Nell’introduzione Healey dice che la principale barriera alla comprensione della teoria quantistica non è la nostra incapacità di immaginare il mondo esterno, reale, che descrive questa teoria; un mondo che percepiamo allora strano, paradossale, inconcepibile dai nostri cervelli. Invece, per Healey: “La vera barriera alla comprensione della teoria quantistica è la presunzione che essa sia da intendere come la descrizione di un mondo”.
La meccanica quantistica, secondo Healey, NON descrive un mondo reale al di là delle apparenze! Ma allora cosa fa? E come questa teoria può essere così efficiente e potente da permettere di costruire dei computer se non descrive niente della realtà? Sembra incredibile.
A questo punto, dovremmo fare un altro esame critico del nostro fascino per i formalismi teorici cioè per la matematica platonica. Se si risponde sì a tutte le domande che riguardano lo statuto descrittivo dei simboli allora siamo ancora catturati nella visione platonica occidentale: i fenomeni sono solo apparenze fugaci, sono una copia della vera realtà adeguatamente descritta dalla matematica ideale. C’è un filosofo francese contemporaneo che mantiene questo: secondo lui, tutto ciò che può essere formulato in termini matematici ha senso sia pensato come una proprietà dell’oggetto in sé.
Ma se vogliamo liberarci dalla metafisica platonica, la nostra critica deve essere indirizzata non solo ai simboli ma anche agli esperimenti. Bisogna imparare a non fare troppe sovrapposizioni concettuali, non soltanto sulla connessione tra i risultati sperimentali, ma anche sugli esperimenti stessi.
Per riuscirci serve fare quello che Husserl chiama epochè: sospendere il giudizio.
Sospendo per esempio il giudizio su cosa manifestano certe immagini (ad esempio delle onde o delle particelle). Se lo faccio, vedo quello che c’è: le apparenze così come sono; solo punti con una distribuzione di tipo particellare o ondulatorio (ma NE particelle, NE onde).
Vediamo ora cosa succede quando proviamo a ricostruire la meccanica quantistica a partire da questa tabula rasa. In alcune considerazioni Bohr dice che la fisica quantistica ci mette di fronte all’impossibilità di una rigida separazione tra fenomeni e mezzi di osservazione. Non si può dire che un fenomeno è l’immediata manifestazione della cosa come è, è soltanto il prodotto emergente della nostra interazione con qualcosa che non possiamo neanche concettualizzare. L’interazione costituisce una parte dei fenomeni. Si deve dunque restringere il significato della parola fenomeno a osservazioni ottenute in circostanze specifiche. Se si ammette quello, la meccanica quantistica secondo Bohr è uno schema simbolico che consente solo previsioni per quanto riguarda i risultati ottenibili in condizioni specificate mediante concetti classici. Ecco, la meccanica quantistica è soltanto un simbolismo della predizione dei fenomeni che risultano dalla nostra azione sperimentale, e basta. Nient’altro ma è un formalismo della coerenza generale di tutte le previsioni possibili, è questo che la rende così immensamente potente.
Parafrasando Hoffman: il formalismo matematico quantistico è sintonizzato sull’utilità piuttosto che su qualche presunta realtà esterna. La fisica quantistica è diretta verso la l’utilità di prevedere, non sulla profonda delucidazione di un’ipotetica realtà nascosta che si pretende sia rappresentata dalla matematica. Il formalismo matematico quantistico, direbbe Hoffman, è uno schema creato dal mio intelletto per informarmi delle conseguenze adattative delle mie azioni. Non altro. Niente rappresentazione della (presunta) realtà ultima.
Le due interpretazioni contemporanee che hanno sviluppato questa intuizione di Bohr sono quella pragmatica di Richard Healey del 2017, e l’interpretazione detta QBism (Bayesianesimo Quantistico) di Fuchs e colleghi.
Fuchs dice che uno stato quantistico non rappresenta la (presunta) realtà ma l’assegnazione di probabilità da un agente che rispecchia i suoi gradi di fiducia riguardo al futuro. Quindi questa psi che noi chiamiamo in genere lo stato di una particella, qui è lo stato di credenza di un fisico. Fuchs si basa sui lavori straordinari di un grande specialista italiano di probabilità, Bruno De Finetti.
Fuchs dice ancora che la meccanica quantistica è un manuale per ognuno di noi su come usare i fenomeni, come andare avanti con i fenomeni e farne qualcosa di efficiente. Dunque è una scienza dell’efficienza, un’ingegneria generale piuttosto che un sapere, non è una sapienza.
Ma la pulsione metafisica risorge sempre, anche in un fisico così economico come Fuchs.
La domanda classica, ereditata dalla metafisica platonica, sarebbe: come dovrebbe essere la realtà nascosta per essere rappresentata dal simbolismo della matematica quantistica? Che stranezza dobrebbe avere quel mondo per essere descritto da una teoria che ha degli stati sovrapposti, e degli stati entangled? Questa è la domanda metafisica classica. Ma c’è anche una domanda meta-teorica fatta da Fuchs. Vedete che neanche lui ha abbandonato l’idea di trovare com’è la realtà. Ma lui non dice che la realtà è rappresentata dalla meccanica quantistica e dalla sua matematica, dice soltanto che la non rappresentabilità della realtà dalla meccanica quantistica ci dovrebbe dare un’idea di com’è questa realtà (è una metafisica negativa, come c’è una teologica negativa. Come dovrebbe essere la realtà per mostrare una resistenza così ostinata all’essere rappresentata come un oggetto? La risposta che dà Fuchs è ispirata dalla visione di Wheeler, la visione dell’osservatore partecipante in cui non c’è più dualità tra osservatore e realtà, e quindi non c’è più dualità tra apparenza e realtà. Ma c’è un solo continuum puro che, auto-separandosi, dà nascita ai fenomeni in cui noi dobbiamo orientarci e in cui dobbiamo prevedere qualcosa. Questo è simile alla concezione di Merleau-Ponty, che vedeva la visione non come l’impressione di un oggetto esterno su un senso soggettivo, ma come l’apertura dell’essere su due lati: l’osservatore e l’osservato. Pure, l’essere rimane unico e non duale in questa apertura. La nuova ontologia di Fuchs assomiglia a quello che Merleau-Ponty chiamava un’“endo-ontologia”: un’ontologia per chi partecipa all’essere invece di affacciarsi all’essere.
Ad ogni modo, con la teoria quantistica possiamo affrontare in modo ordinato le sorprese che sorgono dall’ignoto che esploriamo, senza pretendere di sapere cosa esiste prima di entrarci. È questo che facciamo. Ecco, la meccanica quantistica è l’espressione più potente della nostra modestia cognitiva.