È quasi un truismo affermare che le evidenze a cui possiamo attingere circa i fenomeni soggettivi non possano mai essere oggettive. Escludendo la telepatia, la coscienza rimane un fenomeno irriducibilmente first-person (Searle, 1992); non disponiamo di strumenti oggettivi per accedere all’esperienza altrui (ad esempio misurare il dolore, la paura o la felicità dell’altro) che, pertanto, ci può essere trasmessa, solo attraverso un resoconto soggettivo.
Anche se il nostro resoconto dei fenomeni soggettivi non può essere oggettivo, può comunque essere empirico e addurre conoscenza, ed è precisamente sulla base di questo presupposto che si snodano molte tradizioni di pensiero introspettivo (da Aristotele e Mengzi nel terzo secolo a.C. fino al progetto moderno dello studio scientifico della mente con Descartes e Berkley). In occidente, è proprio con la nascita dei metodi introspettivi quantitativi a metà del XIX secolo che la psicologia scientifica trova il suo slancio iniziale. I primi psicologi scientifici come Helmholtz (1856-1962), Fechner (1860-1964) e Wundt (1869-1902) cercavano di rispondere a quesiti come: quanto tempo deve separare due stimoli affinché questi vengano esperiti individualmente? Qual è la soglia minima di intensità affinché uno stimolo venga percepito consciamente? Che relazione matematica intercorre tra intensità dello stimolo e sensazione risultante? (La legge di Weber-Fechner afferma appunto che questa relazione è logaritmica). Anche se fin dagli albori, gli psicologi hanno impiegato anche metodi non-introspettivi nel loro arsenale metodologico (e.g. prestazioni su prove di memoria o tempi di reazione), le caratterizzazioni iniziali di questo campo ne ponevano l’introspezione, crucialmente, al centro.
Anche se in seguito (con il comportamentismo e il primo cognitivismo) i metodi introspettivi hanno incontrato certe resistenze epistemologiche di stampo neo-positivistico, si può affermare che tali metodologie non siano mai state de facto abbandonate del tutto; Ericsson e Simon (1984-1993) hanno sostenuto l’impiego di protocolli think-aloud (pensare ad alta voce) e rapporti del trascorso immediato nello studio del problem solving; altri ricercatori hanno enfatizzato il ruolo dei metodi introspettivi nello studio dell’immaginario (Marks 1985; Kosslyn, Reisbert e Behrmann 2006) e delle emozioni (Lambie e Marcel 2002; Barrett et al. 2007); resoconti soggettivi o introspettivi hanno infine giocato un ruolo chiave nella ricerca sui correlati neurali della coscienza (Rees e Frith 2007; Prinz 2012; Koch et al. 2016; Varela 1996).
Negli ultimi decenni, il tema dell’introspezione e dei suoi strumenti euristici sta tornando insistentemente al centro dell’attenzione e del dibattito accademico (si veda ad esempio l’ascesa dei “consciousness studies”, Jack and Roepstorff, 2003, 2004) convergendo verso il rinnovato interesse delle scienze naturali per l’esperienza e il soggettivo. Parallelamente, in tutto il mondo, le tradizioni contemplative approcciano precisamente questa forma di osservazione introspettiva in un ventaglio di pratiche (e sistemi di pensiero associati) capaci di trasformare l’esperienza umana, indurre alterazioni nei processi cognitivi e, in modo decisivo, di restituire alla prospettiva in prima persona una voce nel discorso sulla coscienza e sulla comprensione del reale.
Immagine di copertina: dettaglio di May Picture, by Paul Klee, 1925 – The Public Domain Review