di Maria Vaghi
Empatia e compassione sono due concetti fondamentali spesso, purtroppo, ridotti a termini di uso comune che non riescono a coglierne la profondità. Sono qualità con una radice profonda nella filosofia buddhista, ma il loro significato e il loro impatto vanno anche oltre, estendendosi a molti ambiti della vita quotidiana, incluso quello della medicina e della cura. Entrambe sono viste nel contesto buddhista non solo come virtù morali, ma anche come pratiche spirituali che possono essere coltivate attraverso la consapevolezza e la meditazione. L’empatia implica la capacità di comprendere e condividere i sentimenti degli altri, e spesso è il primo passo verso la compassione, che invece si traduce in un’azione concreta per alleviare la sofferenza altrui. Questi due aspetti, pur essendo distinti, sono profondamente legati e si rafforzano reciprocamente, creando una rete di relazioni che vanno al di là della mera interazione superficiale, riscoprendo il senso profondo della connessione umana.
Nella tradizione buddhista, la compassione (karuna) è considerata una qualità intrinseca della nostra natura, radicata nell’interconnessione e nell’interdipendenza che caratterizzano il mondo fisico e le relazioni umane. La psicologia buddhista ci insegna che la compassione non è un sacrificio, né un obbligo morale imposto dall’esterno, ma una risposta spontanea e naturale che scaturisce dalla consapevolezza della nostra comune vulnerabilità. Ogni essere vivente è interdipendente. Siamo legati alla Terra e alla sua natura, ai suoi elementi che formano il nostro corpo, all’aria che respiriamo e all’acqua che nutre il nostro sangue. Proprio come un bambino nel grembo materno dipende dalla madre per la propria vita, così ogni essere umano dipende da milioni di altre forme di vita per sopravvivere. Più prendiamo consapevolezza di questa interconnessione, più la compassione emerge spontaneamente, e la nostra vita si arricchisce di un senso di responsabilità e di cura verso tutto ciò che ci circonda. Come ci ricorda Jack Kornfield citando Desmond Tutu: quando rispondiamo “Stiamo bene” o “Non stiamo bene” alla domanda: “Come stai?” significa che non ci si riferisce mai solo al singolo individuo, ma sempre alla comunità, alla rete di persone con cui siamo interconnessi. Non possiamo essere completamente felici o sani se quelli intorno a noi soffrono, e al contempo la sofferenza di un altro ci riguarda sempre, come se fosse nostra.
Nel contesto della medicina, questo concetto di compassione si è rivelato di fondamentale importanza. Storicamente, la medicina occidentale si è concentrata sull’aspetto fisico e scientifico delle malattie, tralasciando spesso l’esperienza interiore del paziente. In molti casi, la relazione medico-paziente è stata vista come una transazione puramente tecnica, dove il paziente era considerato principalmente come un insieme di sintomi da trattare, piuttosto che come una persona con emozioni, paure e desideri. Tuttavia, negli ultimi decenni, come ci ricorda Bruno Neri, c’è stato un cambiamento significativo in questa visione, con un crescente riconoscimento della necessità di integrare la dimensione spirituale e interiore del paziente nel percorso di cura. La compassione, intesa come una risposta empatica e altruistica alla sofferenza dell’altro, sta entrando a pieno titolo nel dibattito sulla medicina moderna, come una risorsa terapeutica potente che può promuovere una guarigione più completa e profonda.
In questo contesto, diverse pratiche meditative, come quella di amorevole gentilezza (Loving-Kindness Meditation LKM) e di compassione (Compassion Meditation CM), hanno guadagnato sempre più attenzione per il loro potenziale terapeutico. Queste pratiche, che derivano dalla tradizione buddhista (metta e karuna rispettivamente), sono state studiate per il loro impatto positivo sul benessere psicologico e fisico, dimostrando di ridurre emozioni negative come ansia, depressione e stress, e di migliorare la resilienza emotiva e la connessione sociale. La meditazione della gentilezza amorevole, ad esempio, non solo aiuta a sviluppare compassione verso gli altri, ma agisce anche a livello neurologico, modificando strutture cerebrali legate all’empatia e alla regolazione emotiva. Le evidenze empiriche suggeriscono che, attraverso la pratica della meditazione, è possibile non solo migliorare la propria salute mentale, ma anche favorire una maggiore empatia e un atteggiamento di altruismo nei confronti degli altri. In tal modo, queste tecniche meditative si rivelano strumenti straordinari, non solo per i pazienti, ma anche per i professionisti sanitari, che spesso si trovano ad affrontare il peso emotivo della sofferenza degli altri senza un adeguato supporto.
Altri studi, come quello di Neff e Pommier (2013), hanno anche esplorato l’importanza dell’auto-compassione, dimostrando che la capacità di essere gentili con sé stessi nelle difficoltà aiuta a sviluppare una maggiore empatia verso gli altri. L’auto-compassione non è solo un atto di cura verso sé, ma un prerequisito per poter essere veramente compassionevoli con gli altri. Quando siamo in grado di accogliere le nostre fragilità e difficoltà senza giudicarle, possiamo fare lo stesso con gli altri, e la nostra capacità di perdonare, di comprendere e di supportare aumenta in modo significativo. In questo senso, l’auto-compassione non è affatto egoistica, ma si nutre della consapevolezza che solo curando noi stessi possiamo veramente prenderci cura degli altri.
Tuttavia, la compassione non è solo una pratica individuale. Essa dovrebbe essere integrata nel sistema sanitario come un valore fondamentale che guidi l’intero percorso di cura. Le strutture sanitarie dovrebbero sempre più evolvere per diventare luoghi dove l’individuo viene visto nella sua totalità, non solo come un corpo da trattare. La medicina deve fare spazio alla dimensione spirituale e psicologica del paziente, promuovendo un approccio olistico che integri le pratiche compassionevoli in ogni fase del trattamento. Ciò implica che il personale sanitario sia adeguatamente formato per riconoscere e rispondere alle esigenze emotive e psicologiche del paziente, creando un ambiente che favorisca la guarigione non solo fisica, ma anche emotiva e spirituale.
Solo attraverso una trasformazione della medicina che veda il paziente come un essere umano completo, con bisogni fisici, emozionali e spirituali, possiamo creare una medicina che rispetti veramente la dignità della persona. La compassione, come praticata nelle tradizioni buddhiste, rappresenta una risorsa fondamentale per promuovere una cura più umana e più profonda, un percorso che non si limita alla semplice gestione delle malattie, ma abbraccia la sofferenza condivisa tra tutti gli esseri viventi. Sia per il paziente che per il medico, la compassione offre una via per superare la solitudine della sofferenza e per riscoprire il valore della connessione umana, che è il cuore stesso della guarigione. La cura, in questo senso, non è più un atto tecnico, ma un atto di compassione e di amorevolezza che può davvero fare la differenza nel trattamento delle malattie e nel miglioramento della qualità della vita.