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In primo piano - Novembre 2024

Fine vita ed eutanasia

Nel Buddhismo tibetano la morte rappresenta uno stato non ordinario di coscienza, uno stato transitorio tra la fine di un ciclo vitale e l’inizio di quello successivo. L’adesione a questa visione può avvenire sulla base della fiducia nell’autorevolezza del Maestro che la propone, oppure attraverso un ben più complesso, ma possibile, percorso esperienziale nel quale ricopre un ruolo centrale l’esercizio di specifiche pratiche contemplative indirizzate a sperimentare in vita il graduale “ritrarsi” della mente dal corpo che si verifica al momento della morte.

di Bruno Neri e Maria Vaghi

L’enigma della morte è l’ultimo tabu rimasto nella società occidentale. La fede in Dio viene non di rado sostituita dalla fiducia incondizionata nella scienza e nella tecnologia che assume a tratti le caratteristiche di una nuova religione con le sue verità e i suoi dogmi. La visione materialistica è ritenuta in grado di abbracciare tutta la realtà, senza lasciare grande spazio per il trascendente. L’angoscia di morte che ne deriva sembra trovare come unico rimedio la rimozione.
In altre culture la morte, invece, è rimasta al centro della vita come lo era nella nostra società prima dell’era tecnologica. Ad esempio, nella tradizione tibetana, il Libro Tibetano dei Morti si presenta come una guida sempre attuale alla vita attraverso la comprensione della morte. Quello del Buddismo tibetano è un esempio di una cultura millenaria che ha posto al centro della sua riflessione i due temi che costituisco i due grandi misteri dell’universo e sono inscindibilmente intrecciati l’uno all’altro: quello della coscienza e quello della morte. La regressione nello spazio della rimozione ha tolto alla morte ogni dignità. «C’era un tempo in cui la morte stessa era giovane e virile quando falciava senza scrupoli il genere umano; ora anche la morte è invecchiata, tenuta in disparte, un terrore represso consegnato a qualche soffitta della nostra memoria. Nel complesso essa era rapida: si era ben vivi un giorno e belli morti il giorno dopo. Non c’era una grande zona grigia fra la vita e la morte. Oggi essa ci sbocconcella un poco alla volta durante il nostro inevitabile declino », così G. Brown in Una vita senza fine?, Raffaello Cortina Ed. 2014.
Quando emerge dalla zona buia della rimozione, l’angoscia di morte guadagna a pieno titolo la prima posizione nella classifica dei problemi esistenziali insieme ad altre domande senza risposta come:
Qual è il significato della vita?
Che senso ha vivere, lavorare, costruire se poi finisce tutto nel nulla?
Chi sono, da dove vengo e, soprattutto, dove vado?
Che senso ha la sofferenza e perché esiste nel mondo?
Perché esiste qualcosa, piuttosto che nulla?

L’angoscia di morte è forse il problema esistenziale più diffuso anche se non sempre presente a livello conscio a causa della rimozione. A poco valgono artifici consolatori, talvolta sorprendentemente ingenui, come quello molto famoso proposto da Epicuro nella lettera a Meneceo: “La morte, il più atroce dunque di tutti i mali, non esiste per noi. Quando noi viviamo la morte non c’è, quando c’è lei non ci siamo noi. Non è nulla né per i vivi né per i morti. Per i vivi non c’è, i morti non sono più”. L’errore di Epicuro è grossolano: consiste nel non aver tenuto conto che è proprio dalla presa di coscienza che “i morti non sono più” che l’angoscia scaturisce, dalla consapevolezza che la morte pone fine al filo ininterrotto di coscienza che ci ha illuminato per tutta la vita, pone fine alla possibilità di esperire ancora qualcosa, fosse anche il sapore, seppure amaro, della morte stessa. Rimozione, quindi, non soluzione.
L’inevitabilità della morte investe e condiziona diversi aspetti dell’organizzazione sociale e impone la ricerca di soluzioni sia strutturali, a livello di sistema, che personali al problema della malattia, della sofferenza, e della paura della morte, che non potrà essere ridimensionata e, meno che mai, vinta se la morte non cesserà di essere l’ultimo tabu. Occorre una nuova educazione alla morte (death education).

Ines Testoni (filosofa, psicologa, tanatologa) sostiene che “Una delle difficoltà maggiori con le quali dobbiamo confrontarci oggi rispetto alla morte e al morire è la mancanza di un linguaggio socialmente condiviso e quindi di pratiche solidaristiche che costituiscano il fondamento del legame di comunità per l’accompagnamento e per il supporto al lutto. La società della prestazione ci allontana infatti in modo sistematico dalla sofferenza degli altri e ci porta a dimenticare che la finitudine contraddistingue l’esistenza nel mondo”. Nella sua intervista, oltre alla necessità di una educazione diffusa alla morte che ritorni a far parte del normale bagaglio culturale ed esperienziale della comunità, pone l’accento sulla importanza delle pratiche contemplative per indagare a fondo la propria esperienza interiore e confrontarsi serenamente con la consapevolezza della propria finitudine. Come filosofa ha avuto un grande Maestro, Emanuele Severino, il cui approccio al mistero della morte è centrato sulla sua teoria degli “Eterni”, secondo la quale non esiste il “nulla” da cui qualcosa possa emergere o in cui qualcosa possa scomparire. Questo concetto, tutt’altro che facile da comprendere compiutamente, permetterebbe all’essere umano di superare l’angoscia di morte, che è solo una illusione, un inganno prodotto dalla visione nichilista del divenire.

L’accento sulla death education viene posto anche da Lama Yeshe nel suo contributo che si focalizza sull’aspetto esperienziale, piuttosto che su quello sociale e istituzionale. “Pertanto è molto importante educare le persone e noi stessi su cosa accade durante il processo di morte, in modo che sappiamo cosa sta arrivando e possiamo capire che è solo una proiezione mentale. In questo modo possiamo morire senza paura e confusione”, afferma il Lama.
Nel Buddhismo tibetano la morte rappresenta uno stato non ordinario di coscienza, uno stato transitorio tra la fine di un ciclo vitale e l’inizio di quello successivo. L’adesione a questa visione può avvenire sulla base della fiducia nell’autorevolezza del Maestro che la propone, oppure attraverso un ben più complesso, ma possibile, percorso esperienziale nel quale ricopre un ruolo centrale l’esercizio di specifiche pratiche contemplative indirizzate a sperimentare in vita il graduale “ritrarsi” della mente dal corpo che si verifica al momento della morte. Questa esperienza, afferma il Lama, che conduce a uno stato di pura consapevolezza priva di contenuti, invece che terrifica, può risultare fonte di grande beatitudine e dissipare così la connaturata paura della morte: un senso di condivisione di una realtà superiore, di uno spazio infinito di comprensione della vera natura di noi stessi e di tutte le cose.

Anche la tanatologa Daniela Muggia ci accompagna in questo spazio parlando di tukdam e di coscienza non locale: “Possiamo tradurre il termine tukdam come “natura del Vittorioso”, ossia di un buddha. Di cosa si tratta?
È coscienza assoluta, non locale, non dipendente dal cervello, di cui semmai essa si serve per interagire con il mondo esterno fintanto che il cervello funziona. Il che non vuol dire che quando il cervello smette di funzionare essa scompaia”.
Per tukdam dunque si intende lo stato -da cui non si torna- in cui dal punto di vista clinico si parla di morte ma la coscienza è assorta in meditazione e non lascia il corpo. Tanto è vero -prosegue Muggia- che non insorgono i segni inequivocabili di rigor mortis, algor mortis, né segni di decomposizione.
Citando la tradizione buddhista tibetana e quella bön pre-buddhista si sofferma sulla morte come occasione per ri-conoscere consapevolmente che quello siamo. Esse considerano la morte il momento più importante a cui prepararsi perché consente la sintonizzazione più profonda con la propria natura, senza più artificiose separazioni tra coscienza individuale e coscienza (consapevolezza) assoluta. Ricollega poi queste considerazioni alle descrizioni della realtà provenienti dalla fisica quantistica e che tante similarità con essa condividono.
La Muggia espone questi dettagli partendo dalla descrizione dell’approccio di accompagnamento empatico alla fine della vita che ha insegnato in numerosi contesti in Italia e all’estero.

Nel suggerimento di lettura proponiamo due testi utili a rispondere alle esigenze di utenze diverse: Il Libro tibetano dei morti per principianti rende accessibile la saggezza unica di questo prezioso testo per tutti mentre Come affrontare la morte senza paura di Lama Zopa Rinpoche più adatto a praticanti buddhisti.
Ed è proprio grazie a un testo di Lama Zopa Rinpoche che abbiamo l’opportunità di toccare anche il tema dell’eutanasia degli animali. E il Lama dispensa consigli pieni di umanità a veterinari che siano anche praticanti buddhisti.

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Il tukdam è da pochissimo al centro dell’interesse dei neuroscienziati, ma direi che siamo davanti a prove inconfutabili che la coscienza è un fenomeno non locale, cosa che cambia tutto, anche dal punto di vista etico. (…) la morte non è un interruttore, ma un processo lungo e complesso.
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È molto importante educare le persone e noi stessi riguardo a cosa succede durante il processo della morte, in modo da sapere cosa sta per accadere e poter capire che si tratta solo di una proiezione mentale. In questo modo possiamo morire senza paura e confusione.
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Quando si uccide con una vera intenzione di bodhicitta, con un cuore colmo di saggezza del Dharma e compassione, l’atto diventa un caso in cui “è benefico uccidere”.
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Due contributi differenti, per praticanti buddhisti e non, che affrontano il tema della morte, la cui riflessione aiuta chiunque a esperire più pienamente la vita, soprattutto affrontando le proprie paure.