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In primo piano giugno 2024

“Tre modi di meditazione” del Ven. Sonam Wangchuk

Se si vuole che la propria mente dimori felicemente, bisogna fare affidamento sull’antidoto alla concezione di un sé e, a tal riguardo, bisogna meditare l’assenza di un sé.
MSA Sonam Wangchuk tre tipi di meditazione
a detail of Drie zeilschepen en een meeuw (1891), Leo Gestel (Dutch, 1881- 1941), artvee.com

Innanzitutto consideriamo che lo stato mentale degli esseri umani che non hanno alcun addestramento è indicato in molti testi come simile alla natura di una scimmia [per via della caratteristica di questo animale di essere sempre saltellante da una parte all’altra N.d.R]. Il significato di ciò è spiegato come il continuo scivolare nel passato o nel futuro, senza riuscire a stare a lungo su un oggetto di osservazione. Perciò, quanto all’incapacità di controllare il nostro stato mentale, essa dipende dall’incapacità di porre la mente a nostro piacimento su un oggetto di osservazione presente, senza farla vagare appunto nella direzione del passato o del futuro. Tuttavia, per quanto sia facile a dirsi, da un punto di vista pratico, riuscire ad avere il controllo non è semplice.
Riguardo ai modi in cui controllare la propria mente, senza farla spostare tra passato o futuro, vi sono tre modi.

Primo modo. Poniamoci in modo rilassato senza alcuna presa o rifiuto nei confronti dei pensieri che sorgono proprio ora nel nostro continuum. Se esemplifichiamo i pensieri come uno spettacolo, la nostra mente -riguardo a essi- dovrebbe solo stare nello stesso modo in cui si guarda una scena: senza inseguirli. Qualunque apparenza di pensieri sorga, non guardiamola come buona o cattiva e, senza prenderla né rifiutarla, lasciamola al suo posto: essa se ne va, svanendo come la nebbia in un passo di montagna. In breve, qualunque pensiero appaia alla mente, lo si fa apparire: senza fare niente come afferrare o rifiutare i pensieri inseguendoli, si pone la mente nel suo stato naturale. Questo è il primo modo di meditare e, siccome in questa meditazione non c’è alcun oggetto di osservazione definito, bisogna sapere che essa non è nessuna delle due meditazioni, analitica o concentrativa, che hanno un oggetto di osservazione.

Secondo modo. Consiste nel sostare, tenendo la mente su di un oggetto di osservazione definito. In questo contesto si cerca di dimorare con una mente univoca sull’oggetto di osservazione che si è scelto, senza lasciare che la propria mente venga ostacolata da torpore ed eccitazione. In questa meditazione ci sono due cose a cui bisogna fare attenzione: sono necessari il fattore di chiarezza: la chiarezza di quell’oggetto di osservazione alla mente, e una mente vigile che si applica all’oggetto di osservazione. Questo è descritto dai buddhisti come il modo di realizzare il calmo dimorare. In questo contesto si sosta, tenendo la mente su un oggetto di osservazione presente, senza farla andare nella direzione del passato o del futuro. Bisogna sapere che si tratta di una meditazione concentrativa in cui, come prima, non c’è alcuna analisi riguardo all’oggetto.

Terzo modo. Si osserva un oggetto di osservazione che sta sorgendo in quel momento o un oggetto presente: è necessario che, dal punto di vista dell’analisi quell’oggetto non venga perso dalla mente. Qui, i quattro oggetti di osservazione principali sono il proprio corpo, le proprie sensazioni, la propria mente e i fenomeni. Con “fenomeni” si intende l’assenza di un sé, la vacuità e così via. Ciò che è certamente necessario, riguardo a questi quattro oggetti di osservazione, è che si mediti osservando proprio i fenomeni che stanno sorgendo in quel momento o i fenomeni del presente. Ciò è conosciuto come “meditazione dei piazzamenti ravvicinati della consapevolezza”. A tal riguardo, [ci sono] meditazioni che al giorno d’oggi vengono identificate dagli occidentali come “[meditazioni] buddhiste dei piazzamenti ravvicinati della consapevolezza”; ad esempio il sistema di meditazione del mero dirigere l’osservazione sull’espirazione e l’inspirazione, senza analisi, e del porre la mente nel suo stato naturale, senza oggetti di osservazione né pensieri. Si comprenderà che questa non è la meditazione dei piazzamenti ravvicinati della consapevolezza descritta nella tradizione buddhista. Infatti, quando nei testi dell’Abhidharma si parla della meditazione dei piazzamenti ravvicinati della consapevolezza, si osserva uno qualunque dei quattro oggetti sopra menzionati: la consapevolezza e la saggezza concomitanti che li analizzano, dal punto di vista del carattere specifico o generale, sono l’entità della meditazione dei piazzamenti ravvicinati della consapevolezza. “Carattere specifico” si riferisce all’entità, o natura, individuale e “carattere generale” si riferisce all’entità, o natura, generale di quegli oggetti; ad esempio meditarli come privi di un sé o come vuoti. Quando si fa questa meditazione, la mente ha un oggetto di osservazione; è inoltre una meditazione in cui c’è anche l’analisi dell’oggetto.

Qualunque di questi tre metodi si pratichi, in comune tra di essi c’è una caratteristica concorde: è il fatto che la mente del meditatore dimora nel presente, senza essere lasciata andare verso il passato o il futuro. Quanto alla causa principale che produce in noi la sofferenza mentale: questa mente, inseguendo il passato, oppure pensando a questioni future, fa sorgere la sofferenza. Esaminiamo le esperienze in cui la nostra mente diviene esausta: potremo capire che la sofferenza mentale si è presentata avendo osservato una situazione del passato o una qualsiasi questione futura. Per questa ragione, se vogliamo la felicità mentale, dobbiamo fare in modo di ridurre [la tendenza di] questa mente a inseguire i pensieri, andando così nella direzione di passato e futuro. I pensieri di cui stiamo parlando qui non vanno intesi come le esperienze nella loro interezza, ma principalmente come la concezione di un sé e i tre (attaccamento, avversione e oscurazione) che sono indotti dalla concezione di un sé. Riguardo ai significati di attaccamento, avversione e oscurazione: un fattore mentale che vede un oggetto come piacevole, oltre la misura effettiva, e che ha difficoltà a separarsi da esso, è chiamato attaccamento; un fattore mentale che vede un oggetto come avente l’aspetto di sgradevolezza, oltre la misura effettiva, e desidera fortemente separarsi da esso, è chiamato avversione; le menti e i fattori mentali che sono oscurate rispetto al vedere il significato effettivo del modo di dimorare oppure lo apprendono in maniera errata, sono chiamate oscurazione.

La causa radice di questi pensieri è la concezione di un sé; la concezione di un sé apprende “sé” o “io” come qualcosa che esiste come parte di corpo e mente, autosufficiente, autonomo, qualcosa verso cui puntare il dito e che non dipende da alcunché; da ciò, principalmente tramite attaccamento e avversione, sorgono le afflizioni. Di fatto, se si vuole che la propria mente dimori felicemente, bisogna fare affidamento sull’antidoto alla concezione di un sé e, a tal riguardo, bisogna meditare l’assenza di un sé. Questa è anche la ragione per cui nei testi madhyamika si rendono necessarie molte spiegazioni riguardo all’assenza di un sé e alla vacuità.

Qual è il modo di meditare l’assenza di un sé? Se si ha del tempo libero, ci si siede su un cuscino rilassando il corpo; come prima cosa si osserva l’espirazione e l’inspirazione e si medita, anche brevemente, [in questo modo]: questo è un metodo per raccogliere la mente all’interno. Poi, tramite una domanda, bisogna portarsi verso la meditazione effettiva: “Io dove sto?”. Indagando se [l’io] si trova dove si trovano corpo e mente oppure fuori da corpo e mente, è necessario investigare il modo di apprendere della mente innata nel proprio continuum; al contrario, una ricerca di dove si trova o non si trova l’io che non corrisponda a ciò, non nuoce in alcun modo alla concezione di un sé. Perciò, riguardo al modo di apprendere della mente innata, quando si percepisce “io”, si pensa che si trovi dove si trovano il proprio corpo e la propria mente, è evidente che non si ha la sensazione “nelle altre persone o negli altri oggetti ci sono io”. Anche se si dà per scontato che dove si trovano il proprio corpo e la propria mente ci sia un “io” autosufficiente, non è possibile trovare un luogo specifico del corpo o una parte specifica della mente da mostrare dicendo “questo sono io”. L’indagine fatta in modo simile a questo è detta meditazione analitica. La meditazione analitica fa sorgere la saggezza, con essa si può migliorare la memoria e grazie ad essa si possono ridurre progressivamente i pensieri afflitti.

In questo modo, quando si è trovata una certezza che pensa “un ‘sé’ o ‘io’ che sia parte di corpo e mente, autosufficiente, non c’è per niente”, questo è spiegato come significare l’aver visto la vacuità e realizzato l’assenza di un sé. Meditare ciò è descritto come “meditare la vacuità”. Chi fa questa meditazione, questa pratica, chi indaga questo significato, non deve per forza essere
buddhista. Tutti, sia coloro che accettano il Dharma sia coloro che non lo accettano, possono fare questa meditazione. In breve, penso che questa meditazione dell’assenza di un sé si possa considerare una meditazione basata sulla logica e che pervade tutto il mondo. Virtù!

Si ringrazia Davide Lionetti per la traduzione dal tibetano all’italiano

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