La tesi che vorrei sostenere in questo breve articolo, prendendo le mosse dalla filosofia buddhista e dalle sue pratiche contemplative, è che a oggi mancano le basi per affermare che le attuali forme di intelligenza artificiale posseggano un grado di coscienza maggiore di quello che può essere attribuito a un tostapane.
Venire a capo del mistero della coscienza è un compito quanto mai urgente e cruciale per l’umanità, fallire nel quale ci esporrebbe a gravi rischi. Per menzionarne alcuni, potremmo cominciare a sviluppare legami affettivi con oggetti inanimati che riproducono solo esteriormente il comportamento di esseri senzienti; e magari, su queste basi, addirittura decidere di riconoscere loro una personalità giuridica e dei diritti. Ma potrebbe anche andare peggio: con l’avanzamento delle neurotecnologie, potremmo avere la tentazione di assicurarci una forma di immortalità digitale. La fantascienza, assieme ai più audaci pensatori transumanisti, profetizza ormai da alcune decadi la possibilità di trasferire la coscienza su un mezzo digitale, senza considerare sufficientemente a fondo la possibilità che una simile tecnologia, qualora disponibile, potrebbe sì riprodurre fedelmente i nostri pattern di pensiero, ma senza che ciò porti con sé la benché minima traccia di un’esistenza soggettiva.
Di buono c’è che l’avvento delle tecnologie intelligenti ci offre oggi l’opportunità di riscoprire, in chiave scientifica, una domanda che per millenni è stata al centro dell’indagine filosofica d’Oriente e Occidente, ma che è stata in qualche modo accantonata negli ultimi centociquant’anni di scienza, sepolta da qualche parte nell’inconscio del materialismo moderno. E proprio in questo compito il Buddhismo potrebbe offrire contributi decisivi: la sua filosofia racchiude un quadro concettuale assai raffinato, che potrebbe permettere di delineare in modo più preciso e rigoroso i termini del problema. Ma anche nella ricerca sperimentale la tradizione buddhista potrebbe rivestire un ruolo importante: le sue pratiche contemplative più avanzate potrebbero accrescere le nostre conoscenze neurofenomenologiche sulla coscienza e i suoi diversi stati.
Ma procediamo con ordine. Il punto di partenza della mia riflessione è la prospettiva non riduzionistica secondo cui la coscienza non può essere considerata una funzione cognitiva tra le altre, come sostengono anche filosofi contemporanei quali Thomas Nagel e David Chalmers. Quest’ultimo formula la questione in modo molto chiaro parlando dello hard problem of consciousness, il problema difficile della coscienza: come avviene che determinati processi fisici siano accompagnati da un’esperienza soggettiva? Non si tratta dunque di capire come la materia si organizzi per dare origine a forme computazionali di intelligenza – abbiano esse per base il carbonio delle forme viventi o il silicio dei computer. Questi sono problemi facili. Il vero enigma riguarda invece la coscienza in quanto tale; esistere in prima persona.
Anche la filosofia buddhista adotta una prospettiva fortemente non riduzionistica: qui la coscienza è inquadrata, in un’ottica fenomenologica, come il mero apparire ed essere conosciuto da parte di un oggetto, e dunque non può, per definizione, essere considerata a sua volta come un oggetto tra gli altri, né come questa o quella funzione cognitiva. La coscienza è piuttosto l’orizzonte dell’esperienza, l’esperire stesso, nel cui contesto soltanto possiamo incontrare i vari enti materiali.
Ma in che modo possiamo immaginare una ricerca scientifica che muova da queste premesse? Si potrebbe obbiettare che, se la coscienza non è un oggetto empirico, è impossibile trovarne evidenze sperimentali. D’altro canto, sappiamo che eventi empiricamente osservabili, come i processi neurofisiologici, hanno un impatto sulla coscienza, che a sua volta produce effetti sul mondo attraverso le azioni di esseri coscienti come noi. Ciò impone di evitare la trappola del dualismo, che pensa alla coscienza e alla materia come a due sostanze differenti. Perciò la coscienza deve essere, in qualche modo, parte di una descrizione unificata della realtà, con buona pace di chi la vorrebbe collocata in qualche dimensione ultraterrena.
Personalmente, ritengo molto interessante l’ipotesi panpsichista, secondo cui la coscienza pervaderebbe l’intero universo fisico e sarebbe presente in diverse forme e gradi a ogni livello di organizzazione della materia. Peraltro, tale prospettiva appare per molti versi compatibile con il punto di vista del Buddhismo Mahāyāna, che insiste sulla strettissima interdipendenza tra materia e coscienza, e in ultima analisi sulla loro non dualità. Partendo da queste premesse, la domanda sulla coscienza suonerebbe in questo modo: in che modo gli elementi fondamentali della materia, con il loro grado minimo di coscienza, si organizzano per dare origine alle forme articolate di esperienza soggettiva che sperimentiamo in prima persona come esseri umani? Si tratta di una via interessante da percorrere, che rappresenta un’alternativa filosoficamente consistente alla premessa che viene spesso data per scontata dalle scienze cognitive, ossia che la coscienza si manifesti ex abrupto, e alquanto misteriosamente, in corrispondenza di un livello più o meno avanzato di evoluzione del sistema nervoso, al di sotto del quale sarebbe del tutto assente.
È proprio su tale premessa – su cui si è riflettuto troppo poco – che poggia l’idea secondo cui l’intelligenza artificiale potrebbe essere (o diventare presto) cosciente. Il più ovvio controargomento a questa tesi è che la coscienza non è ciò che abbiamo inteso creare con l’IA. Il nostro obiettivo era quello di simulare alcune delle nostre funzioni cognitive superiori (come la capacità di analizzare e produrre testi, per esempio), mentre non abbiamo in alcun modo cercato di riprodurre forme di esperienza cosciente – un tema su cui, peraltro, al momento brancoliamo nel buio. Del resto, non c’è da rimproverarsi se per un momento, leggendo le risposte di una chatbot come ChatGPT, ci è balenato il pensiero che dall’altra parte potesse esserci “qualcuno”: infatti, fino a questo momento, gli unici esseri dotati di parola eravamo noi, cosicché sembrerebbe logico assumere che la formulazione di risposte pertinenti al contesto richieda una qualche forma di coscienza, più o meno simile a quella che ci caratterizza.
Ma forse è giunto il momento di distinguere con maggiore precisione il concetto di coscienza da quello di intelligenza. Per far luce su questo punto, converrà domandarsi in che modo sono stati creati questi grandi modelli di linguaggio, capaci di prodezze che sarebbero state inimmaginabili fino a pochi anni fa. Ciò che abbiamo fatto è stato riprodurre su un supporto digitale l’architettura delle nostre reti neurali, peraltro in modo alquanto semplificato e significativamente differente dal modello biologico di partenza. Ma il punto è un altro, ed è qui che la prospettiva panpsichista, così come quella non dualista del Buddhismo, potrebbero gettare un po’ di luce: cosa ci fa pensare che il mistero della coscienza si nasconda su un piano così elevato o, per meglio dire, superficiale di organizzazione della materia? Perché dovremmo supporre che tutto ciò che si trova “al di sotto” della rete di relazioni che percorre la nostra neocorteccia (cioè i neurotrasmettitori, la struttura dei neuroni, i vari corpuscoli di cui sono composti o, chissà, qualche fenomeno quantistico che potrebbe avere luogo al loro interno, come sostengono alcuni fisici del calibro di Roger Penrose) non abbia alcuno ruolo nel dar vita all’esperienza cosciente? Peraltro, nel cervello umano ci sono processi molto complessi che tuttavia non sono affatto accompagnati da coscienza, come avviene per esempio nel cervelletto, un esempio spesso menzionato dal neuroscienziato Giulio Tononi per dimostrare che la coscienza non scaturisce da un generico livello di complessità.
Sembra dunque necessario cercare qualcosa di più specifico, e forse di più fondamentale rispetto all’organizzazione formale delle reti neurali. Se l’enigma della coscienza – come suggeriscono tanto il panpsichismo quanto le filosofie non dualiste del Buddhismo Mahāyāna – risiede molto più in profondità di così, nel cuore stesso della materia, allora diventa cruciale scoprire in che modo, nei viventi, questo livello fondamentale e pervasivo di coscienza, che dobbiamo supporre sia presente in ogni cosa, si è articolato in forme via via più complesse, dando vita alla varietà delle nostre esperienze soggettive, così come a quelle di tutti gli esseri senzienti. In mancanza di questa comprensione profonda e capillare del rapporto tra coscienza e materia, è assai probabile che, non importa a quali mirabili progressi tecnologici assisteremo nei prossimi anni: la superintelligenza artificiale del 2030 potrebbe benissimo surclassarci in ogni compito cognitivo, ma rimarrebbe pur sempre tanto cosciente quanto il silicio di cui sarà composta.
Tornando al Buddhismo, l’idea stessa che la coscienza possa emergere dalla complessità computazionale del cervello – o che comunque si tratti di un fenomeno “complesso” – si scontra con la psicologia buddhista e con l’esperienza contemplativa che ne sta alla base. Qui la coscienza, nella sua natura fondamentale, è descritta come qualcosa di semplice, piuttosto che complesso. Non si tratta solo di una tesi filosofica ma, appunto, di una consapevolezza che nasce dalla contemplazione, cioè dall’osservazione in prima persona che la coscienza fa di sé stessa. Ed è qui che la tradizione buddhista potrebbe rivelarsi preziosa per l’indagine neurofenomenologica, giacché esistono particolari stati di coscienza, raggiunti attraverso forme avanzate di meditazione, nei quali la natura semplice e fondamentale della coscienza – in sé priva di elaborazioni discorsive, senso di spazio, tempo, identità o qualunque altra funzione cognitiva – si manifesta con singolare chiarezza. Stiamo parlando in particolare delle meditazioni non duali o senza oggetto, come quelle previste nelle pratiche di dzogchen, mahāmudrā o zazen. Lavorare con meditatori esperti in queste discipline potrebbe aiutarci a trovare i correlati neurofisiologici di questo stato basilare di presenza che, secondo la tradizione, pur essendo presente in tutti, viene in un certo senso risvegliato e intensificato dalla pratica meditativa.
Un’altra via interessante è quella dello yoga tibetano del sonno, nel cui contesto si afferma la possibilità di essere consapevoli durante lo stato di sonno profondo: è qui che i praticanti esperti sperimentano la chiara luce del sonno, descritta come una forma di consapevolezza pura, priva di ogni dualismo o attività cognitiva, e considerata molto vicina alla natura fondamentale della coscienza. Come suggerisce Evan Thompson nel suo La veglia, il sonno, l’essere, individuare i correlati neurofisiologici di questo “sonno lucido” potrebbe portarci più vicini alla meta, che comunque appare ancora decisamente lontana.